Se Milano e la Lombardia confermano i ritardi e l’imbarazzante impreparazione nel governare un corso d’acqua di fronte all’accelerazione di eventi atmosferici sempre più estremizzati, l’effetto Venezia sta mostrando al mondo in questi giorni la soluzione tutta Made in Italy per l’adattamento ad uno dei peggiori effetti del nuovo clima come il lento ma costante rialzo delle acque marine per lo scioglimento dei ghiacciai, associato a venti e tempeste e a maree sempre più alte e violente. Lancia il suo message in a bottle a circa 680 milioni di persone, l’11% della popolazione mondiale che vive a meno di 10 metri sopra il livello del mare, ma saranno un miliardo entro il 2050, e alle 136 megalopoli costiere tra cui New York, Tokyo, Giacarta, Mumbai, Shanghai, Lagos e Il Cairo. Già, perché la più bella e fragile città oggi non è solo l’irriproducibile patrimonio dell’umanità, ma la dimostrazione concreta che si può reagire, che possiamo proteggerci di fronte ad uno dei nemici più temibili, e a maggior ragione nella nostra penisola circondata ai tre lati dal mare.

Per difendersi dalle onde alte dell’Adriatico, ci sono certo voluti 40 anni. Sono partiti, infatti, dopo la Legge Speciale per Venezia e la legge 798 del 1984 che istituì il “Consorzio Venezia Nuova”, soggetto attuatore di un progetto allora considerato fin troppo avveniristico, di ingegneria civile, ambientale e idraulica. Lo chiamarono MOSE, evocando il ritiro biblico delle acque del Mar Rosso, come acronimo di “Modulo Sperimentale Elettromeccanico”. Finì anche in un ginepraio tangentizio con arresti e condanne, ma iniziarono a posarlo sui fondali dal 14 maggio 2003 come un colossale sistema di 4 dighe “a scomparsa”, con 78 paratoie mobili di acciaio alle 3 bocche di porto che uniscono l’Adriatico alla laguna. Nella disillusione generale, dopo alcuni flop, venerdì 10 luglio 2020, il commissario straordinario Elisabetta Spitz diede il via al test del sollevamento. Dopo le 11, le paratoie colossali d’acciaio si sollevarono tra gorghi e mulinelli e, per la prima volta, la laguna di Venezia fu separata dal suo mare. Da allora il Mose protegge la città dalle maree oltre i 110 centimetri, chiudendo temporaneamente la laguna e tenendo il livello delle acque interne sotto i 90 centimetri sul livello medio.

Senza il Mose, anche nella notte di martedì scorso, con in mare aperto l’acqua a 150 centimetri, un Adriatico gonfio e spinto dai fortissimi venti l’avrebbe sommersa lasciando il mondo intero sotto shock. Come sempre, l’onda avrebbe divelto pontili, travolgendo e sollevando gondole e vaporetti come fuscelli in Canal Grande e ammassandoli chissà dove, avrebbe allagato soprattutto la città antica come nel 12 novembre del 2019 quando entrarono in laguna acque alte 187 centimetri, la seconda alta marea di sempre dopo l’Aqua Granda all’altezza record di 194 centimetri del 4 novembre del 1966. Invece, per la prima volta, e per 10 giorni consecutivi di maree eccezionali, i “masegni”, le pietre della città dei Dogi che lastricano Venezia da più di seicento anni, sono rimasti all’asciutto. Il Mose ha evitato eventi catastrofici in serie sollevato per 10 volte. Certo, ogni sollevamento ha un costo intorno a 200 mila euro, ma non c’è confronto con i possibili danni di un allagamento del 70% della superficie urbana. Le paratie mobili, che interrompono solo temporaneamente il flusso della marea nella laguna, sono attivate con una previsione di 120 centimetri di alta marea, ma dall’autunno 2024 scenderanno a 110. Finora, il Mose è stato sollevato 60 volte contro maree eccezionali e 180 volte per sperimentazioni programmate. Ogni “alzata” del sistema idraulico alle 3 bocche di porto ha sempre tenuto fuori della laguna le onde di marea nel loro aumento di frequenza facendo “scudo” con la migliore tecnica e tecnologia nazionale. Ma sappiamo anche che vanno affiancati altri interventi per la massima resilenza dell’ecosistema lagunare e per la città come le bonifiche dei fondali e delle acque, il rafforzamento delle fondamenta veneziane provando a rialzarle di 25-30 centimetri con iniezioni di liquidi, manutenzioni di canali. Gli specialisti di idrodinamica e di morfo-dinamica lagunare e di ingegneria complessa sanno che ad un sistema complesso come il rapporto mare-laguna-terra la risposta non può essere una e secca, ma è fatta di interventi integrati.

Però tranquillizza sapere che Venezia manda oggi un segnale positivo che deve arrivare alle orecchie del governo e di chi amministra le nostre città costiere. La nostra industria più innovativa è in grado di realizzare e applicare soluzioni industriali e natural based solutions di adattamento, la cui urgenza è negli studi realizzati nei laboratori di ricerca dell’ENEA e del Centro Euro-Mediterraneo per i cambiamenti climatici, dove i rendering della modellistica previsionale che combina fusione dei ghiacci, espansione termica di mari e oceani, fenomeni meteo e maree, movimenti della crosta terrestre e parametri delle nostre coste, sono da non dormirci la notte. Se tutto resta come è, nell’indifferenza e senza politiche di contrasto, mitigazione e adattamento (la legge di bilancio nemmeno sfiora il problema), ancor prima del 2100 sarà possibile la sommersione di una quarantina di aree costiere adriatiche e tirreniche: le coste da Trieste a Venezia a Ravenna, dal golfo di Taranto alla piana di Catania, dalla costa del Siracusano alle Eolie, dalle piane di Oristano a quella di Cagliari, dalla Piana del Sele e del Volturno al Sud Pontino e ad Ostia-Fiumicino, dalla Versilia alla Liguria. I modelli ad alta risoluzione con tecnologie satellitari e rilievi sul campo mostrano modifiche anche radicali della morfologia attuale di almeno 1.800 km lineari di nostri ambienti litoranei, con allagamenti fino a 5.500 km2 di pianure sul mare dove si concentra oltre metà popolazione italiana, agricoltura di qualità, industrie e testimonianze storiche e culturali. Ma Venezia è oggi l’esperimento del mondo che sarà, e sta dimostrando la strategica importanza di pianificare difese per persone e beni esposti, infrastrutture marittime con porti e moli, aree costiere urbane, turistiche e industriali, accettando anche azioni di “arretramento” con reinsediamenti verso l’interno.