Lo stop alle indagini
“Messina Denaro poteva essere arrestato 15 anni fa, ma Pignatone e Scarpinato bloccarono tutto”, la rivelazione dell’ex agente del Sisde
Il Riformista ha ricevuto una testimonianza clamorosa. Dai protagonisti di una vicenda che merita di essere conosciuta nella sua interezza: il Sisde lavorò attivamente, dal 2003 al 2006, alla cattura di Matteo Messina Denaro. Arrivandoci molto vicino. Adescandolo con un’esca e riuscendo a tracciarne il ‘perimetro vitale’. E questo grazie a un’attività di indagine under cover, con un infiltrato – facente base a Castelvetrano, nel trapanese – che riuscì a individuare qual era l’area in cui il boss doveva essersi nascosto. Tanto da intraprendere una corrispondenza diretta con Matteo Messina Denaro capace di far capire dove fosse il latitante, ma ancor più: capace di mettere le mani sul patrimonio nascosto dal boss di Cosa Nostra.
Una indagine durata tre anni e che sarebbe arrivata a meta se non ci fosse stata, a fermarla, la Procura di Palermo. In particolare due Pm: Giuseppe Pignatone e Roberto Scarpinato, diedero ordine di fermare le indagini ed assunsero, come vedremo, un inspiegabile atteggiamento verso chi le stava operando e rendendo possibili. Torniamo indietro e guardiamo ai fatti. Li abbiamo ricostruiti grazie alle testimonianze di due agenti dell’allora Sisde e alle parole del direttore della testata La Valle dei Templi, Gian Joseph Morici. È stato lui a scrivere per primo della singolare figura di Antonio Vaccarino. Insegnante di liceo amato dai suoi studenti, viene eletto sindaco di Castelvetrano con la Dc. Poi finisce in una storia opaca, viene portato addirittura nel carcere di Pianosa: associazione mafiosa. Le accuse cadono, ma la Procura gli contesta un traffico di droga.
Macchia indelebile, per un insegnante coscienzioso. Tornato a casa, si rivolge ai Carabinieri: vuole dimostrare che lui è contro la mafia, che è sempre stato una persona perbene. E propone una idea: conosce bene Salvatore Messina Denaro, che ha avuto in classe come studente. Scriverà delle lettere che andranno recapitate dal fratello al più noto boss. Escogita un piano che comunica ai Carabinieri, che ne informano il Comando e da qui, il Sisde. Una cabina di regia segue l’operazione, prima con prudenza, poi con maggior convinzione. Una trama da film: l’anziano professore intraprende una corrispondenza alla quale a un certo punto Matteo Messina Denaro decide di rispondere. A far da tramite, Alfonso Tumbarello, il medico di Castelvetrano che in questi giorni è tornato nell’occhio del ciclone per la prossimità con la famiglia Messina Denaro. Di cui Pignatone e Scarpinato sapevano dall’interrogatorio che fecero a Vaccarino nel 2007. Nell’epistolario Matteo Messina Denaro si firmava “Alessio” ed all’interlocutore attribuì il nome di “Svetonio”, l’autore romano di “De viris illustribus”. “Alessio” non lo sospettava, ma Svetonio stava collaborando – con un ruolo rischiosissimo, in prima persona – con le indagini più accurate finora eseguite. Coordinate dal colonnello Giuseppe De Donno che riferiva direttamente all’allora Direttore del Sisde, Generale Mario Mori.
Nel 2003 i messaggi iniziano ad andare avanti e indietro per il trapanese. L’esca era quella di portare gli affari di Messina Denaro al sicuro, con alcuni investimenti garantiti da professionisti insospettabili. Numerosi pizzini di quel carteggio sono stati ritrovati e peraltro anche pubblicati. Una certa quantità venne rinvenuta nel 2006 nel covo di Bernardo Provenzano. Tra questi, quello che prova come la trama stesse girando per il verso giusto: Matteo Messina Denaro chiedeva a Provenzano un parere ‘autorizzativo’ a concedere fiducia ad “Svetonio”, provando a mettergli in mano una prima cifra da investire. Autorizzazione concessa, come risulta dagli atti del processo Provenzano che hanno repertoriato il carteggio. A quel punto però qualcosa si blocca, nella trappola predisposta dagli uomini di Mori. Succede nel 2005, quando alla Polizia arriva uno dei pizzini con l’indicazione del messaggero finale. Un pezzo di carta che doveva essere consegnato, per quanto sapevano gli uomini della Questura, da parte di un noto mafioso al professor Antonio Vaccarino. Gli stanno per mettere le manette ai polsi quando Mori parte per raggiungere l’allora capo della Polizia, Prefetto Gianni De Gennaro. Gli racconta tutta la storia. “All’inizio non volevano credere che fossimo riusciti a organizzare la corrispondenza di un infiltrato. Ci guardarono increduli”, racconta al Riformista uno dei protagonisti di quei giorni. Appresa la vicenda, De Gennaro disse di non poter esimersi dal comunicare questa notizia alla Procura di Palermo.
“Eravamo sul punto di mettere le mani su tutto, su Messina Denaro e prima ancora sul suo patrimonio”, ci riassume lo 007 con cui parliamo. E cosa accadde a quel punto? Si può immaginare: un encomio solenne, la massima collaborazione tra apparati e via dritti verso l’obiettivo. Nient’affatto. Viene richiesta al gruppo di lavoro del Sisde tutta la documentazione: le note di servizio, i verbali, gli interrogatori eseguiti. Tutte le istruzioni date a Vaccarino, le telefonate intercorse, le informazioni acquisite. E a quel punto? “Fermarono l’operazione. Provammo a resistere, a far capire che una operazione simile non sarebbe più ricapitata, ma Pignatone e Scarpinato furono irremovibili. Ci chiesero perché non fosse stata avvisata la Procura di Palermo, chiarimmo di aver informato il Procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso”. La Polizia procede ad alcuni arresti, derivanti dalle informazioni raccolte. La Procura nell’ordinanza di custodia cautelare dà atto “dell’ottima attività investigativa svolta dal Sisde”, con questo lodando l’iniziativa dell’infiltrazione, ma contemporaneamente espone in pubblico il ruolo di Vaccarino. Non solo: la Procura di Palermo – contrariamente a quanto avevamo raccomandato – interroga Vaccarino e lo “brucia”: ne rivela l’identità, sovraesponendolo anche alle minacce di ritorsione di Cosa Nostra. Sarà inutile chiedere qualsiasi protezione: la Procura abbandona Vaccarino al suo destino.
Il professore rimane a Castelvetrano. Tenterà poi di fare una diversa attività per la Dia di Caltanissetta, ma verrà addirittura arrestato: pensano che stia manipolando le cose. Al processo che seguirà, vanno a testimoniare gli stessi ufficiali del Sisde con cui aveva collaborato per anni. “Messina Denaro poteva essere preso almeno quindici anni fa, mi creda”, ci confida l’agente dell’ex Sisde. “Abbiamo un infiltrato sotto copertura, una fonte interna raggiunta dall’infiltrato, arriviamo a sapere informazioni inedite scritte di suo pugno da Matteo Messina Denaro e la Procura di Palermo che fa? Ferma tutto”, ribadisce con amarezza l’ufficiale. Si parla di conflitto di competenze, di mancato coordinamento. Ci fu anche una coda di dichiarazioni polemiche tra Pignatone e Grasso. Ma il lavoro di Mori e De Donno rimane a oggi il più vicino a disvelare non solo il covo principale del latitante più ricercato d’Italia ma anche a metterne in luce il flusso dei conti correnti, la direzione che quell’incredibile quantità di denaro prendeva in entrata e in uscita dal Trapanese. Già, perché l’area era del tutto circoscritta: le persone che vennero usate come messaggeri e le distanze impiegate dai pizzini avevano dato agli investigatori del Sisde l’idea esatta del perimetro in cui Messina Denaro doveva essere nascosto. “Le tracce portavano a una zona compresa tra Trapani, Castelvetrano e Campobello di Mazara, non c’era dubbio che fosse dentro questo perimetro. E lo abbiamo riferito e documentato alla Procura di Palermo, a Pignatone e Scarpinato”.
Nel 2006. Diciassette anni fa. Il Pg e l’aggiunto Scarpinato che fanno? Mettono sotto torchio Vaccarino e gli chiedono di Tumbarello. Seguendo una pista tutta loro: dietro a tutto deve esserci la massoneria. Gli chiedono di logge coperte. Di trame segrete. Di poteri occulti che tramano con i vertici dello Stato. L’infiltrato del Sisde risponde con quel che sa: ecco dove si nasconde il boss, questi sono i suoi patrimoni, qui ha i suoi contatti con i famigliari, lì devono mettere del denaro. Parla di attività, di complicità, di notizie che ha saputo trarre dalle confidenze, pizzino dopo pizzino, del boss ricercato. Trascorre del tempo e che succede? Vaccarino venne arrestato. Il pentito Vincenzo Calcara sostiene che è un mafioso che cerca di rifarsi una verginità. Gli credono su due piedi, ammanettano il professore. Anche se molti non credono affatto alla sua colpevolezza. Il giornalista Gian Joseph Morici è certo che si trattasse di un depistaggio. Ha letto tutte le carte dei suoi processi, negli anni.
“E ce lo dice Paolo Borsellino nel 1991 quando ci dice che Spatola non può essere uomo di Cosa Nostra, in quanto figlio di sbirro. Vaccarino era figlio di un poliziotto, fratello di un Carabiniere e genero di un agente della Guardia di Finanza. Non aveva certo un pedigree da mafioso”. Ma c’è un fatto inoppugnabile, su tutto: le sue attività consentirono di localizzare e arrestare Salvatore Messina Denaro. Purtroppo, la Procura di Palermo smise presto di credere al professore. Allontanati gli investigatori del Sisde, si iniziò a minare la credibilità di Vaccarino. Che malgrado la tarda età fu tenuto in carcere e messo ai domiciliari giusto in tempo perché il covid potesse portarselo via. Muore il 21 maggio 2021. Insieme con lui, si cerca di seppellire i segreti indicibili di questa storia.
© Riproduzione riservata