Michel Leiris, lo scrittore che ha raccontato il colonialismo senza stereotipi e clichè

Osserviamo, per l’ennesima volta, Les Demoiselles d’Avignon, il celebre quadro di Pablo Picasso, dipinto nel 1907 a Parigi e oggi conservato al MoMa di New York. Le figure laterali altro non sono che maschere nere, capaci di frantumare ogni nostra scansione di spazio e valori. Torniamo dunque indietro, al tempo in cui la coscienza europea era entrata in profonda crisi non riuscendo a trovare dentro sé stessa gli strumenti per superare la propria sfiducia. Le arti della pittura e delle belle lettere erano misere avanguardie di consapevolezza destinate a perdersi, senza incidere granché sulla scelte politiche, visto e considerato gli scempi totalitari che presto seguirono.

Il colonialismo aveva sentenziato un fallimento etico talmente smaccato da rendere quantomeno patetica la celebrazione dell’opera civilizzatrice francese che il 6 maggio 1931 ebbe, tuttavia, ugualmente luogo in pompa magna al Bois de Vincennes nell’Exposition coloniale internationale. Soltanto tredici giorni dopo l’inaugurazione della mostra, composta da grandi padiglioni espositivi con oggetti e reperti provenienti dall’Impero d’Oltremare, salpava da Bordeaux sui legni della Saint-Firmin una missione etnografica e linguistica, diretta da Marcel Griaule e finanziata dallo Stato, che avrebbe dovuto congiungere Dakar a Gibuti, alla quale partecipò, come segretario archivista e ricercatore, Michel Leiris, allora appena trentenne, destinato a diventare uno degli scrittori più significativi del ventesimo secolo, autore, fra l’altro, del memorabile saggio sulla Letteratura come tauromachia (1937) e del ciclo Età d’uomo (1939).

Il diario che questo novello Pigafetta ricavò da tale giovanile esperienza uscì, presso Gallimard, un paio d’anni dopo il ritorno a Marsiglia della spedizione, con il titolo, ispirato da André Malraux, L’Africa fantasma. Un libro leggendario, tradotto per la prima volta in italiano da Aldo Pasquali nel 1986 per Rizzoli e che è stato recentemente riproposto da Quodlibet/Humboldt (pp. 780, 34 euro) in una stupenda edizione a cura di Barbara Fiore, comprensiva di quaranta fotografie e anche della presentazione di Jean Jamin, il quale opportunamente mette in guardia il lettore sulla natura in molti sensi equivoca del testo, paragonabile forse soltanto al famigerato Impression d’Afrique (1909) che Raymond Roussel compose, secondo la vulgata, in Africa sì, ma quasi senza mai uscire dalla sua stanza d’albergo. Non a caso, del resto, appena Marcel Griaule ebbe modo di leggerlo, ruppe i legami con il suo autore. In seguito il regime di Vichy ne vietò la pubblicazione. Cosa aveva di così pericoloso la minuziosa cronaca dell’attraversamento in veicoli Ford, durato quasi due anni, del Continente Nero da un oceano all’altro?

Era in sostanza, come possiamo verificare ancora oggi, la negazione operativa del potere inebriante del viaggio, nonché della sua valenza scientifica: implicitamente ridicolizzando sia la pretesa avventura surrealista, dalla quale peraltro l’autore si era già staccato, sia il progetto dell’antropologia accademica, tesa in pratica ad ottenere una ben retribuita cattedra universitaria, ben prima della gratuita conoscenza. Su un piano leggermente più alto, le annotazioni minuziose e in verità abbastanza stucchevoli di Michel Leiris, da una parte scoprivano gli altarini romantici di Breton e compagni, dall’altra smascheravano l’illusione classificatrice dei ricercatori. Se infatti, come dimostrerà Lévi Strauss, “essere là” è impossibile e chi si mette in marcia verso l’altrove dovrebbe innanzitutto rinunciare all’idea di compiere “un’esperienza rivelatrice”, allora, come affermerà Clifford Geertz in Opere e vite, «il resoconto diventerà credibile in quanto diventi credibile la persona stessa che lo costruisce». E qui cominciano i problemi.

Michel Leiris, quando prendeva i suoi appunti nella brousse, protetto dalla tenda e dal chinino, era ancora troppo giovane per comprenderlo appieno, ma d’istinto evitò come la peste il conforto esotico che aveva inebriato Gauguin, di fatto sottraendosi al rapporto con Emawayish, una fra le ragazze conosciute in Etiopia, fino al punto di progettare un romanzo, mai composto, criptoconradiano, nel quale Axel Heyst, protagonista di Vittoria, come nell’originale, finisce per suicidarsi. Siamo insomma ancora in una fase preliminare, quasi che l’avventura africana fosse arrivata troppo presto per essere adeguatamente filtrata, ma proprio per questo la sua caratteristica “iniziazione al vuoto” potrà annunciare altri futuri simili suggestivi azzardi, in stile Henri Michaux (Ecuador, peraltro disponibile sempre da Quodlibet).

Chi invece restasse curioso di capire in che modo Michel Leiris risolverà, oppure no, la sua inesausta tensione verso il “cuore di tenebra” che noi supponiamo nell’altro, dovrebbe leggere la terza parte di Fourbis (1955), tradotto da Ivos Margoni per Einaudi come Carabattole (1998): quella in cui lo scrittore, temprato dal disincanto ma ancora non arreso all’evidenza, rielabora in età matura una vecchia storia con Khadigia, prostituta algerina. Che rinnova, ai suoi occhi, l’amore di Radames per Aida.