Michele Prestipino, Imperatore capo della Procura di Roma in continuità con Pignatone

La nomina di Michele Prestipino alla carica di Capo della Procura della Repubblica di Roma è stata commentata in maniera positiva, in qualche caso addirittura entusiastica, da molti osservatori delle cose di giustizia. Nessuno, tanto per fare un esempio, si è troppo interrogato sul fatto, che può apparire stravagante solo ai cultori della logica piana che evidentemente non alberga a piazza Indipendenza quando si tratta di nomine di vertice, che per l’ascesa al soglio di un ufficio che “vale più di due ministeri” il neo eletto abbia totalizzato un consenso talmente trasversale da apparire innaturale, visto che coniuga i rappresentanti di Area da una parte, Davigo dall’altra, con Unicost a far da collante.

Come dire il diavolo e l’acquasanta. Tutti però uniti nello slogan per cui “i titoli devono avere un’anima”, come poeticamente commentato da uno dei grandi elettori appartenente ad Unicost per giustificare il fatto che altri candidati con maggiori titoli non erano stati nominati. In realtà tutti ancor più coesi nell’assicurare una continuità nella gestione dell’uffcio che a qualcuno, visto il sodalizio “umano e professionale” ultraventennale con Pignatone, che lo stesso Prestipino ha subito ricordato, è parsa più una successione dinastica che una elezione democratica.

Di suo il neo Procuratore Capo, che è un magistrato dal tratto gentile ma anche un esperto navigatore delle infide acque del mondo giudiziario, ci ha messo un discorso di investitura giuridically correct con il quale ha esortato i suoi sottoposti al “lavoro silenzioso” e, soprattutto, richiamando le parole di Bachelet, li ha ammoniti a non «identificare mai se stessi o i propri interessi, o anche le proprie idee, con il bene comune». La platea, composta in massima parte dai magistrati della sede capitolina ma anche da una qualificata rappresentanza di vertice dell’avvocatura, ha applaudito con convinzione quelle parole d’ordine liberali.

Del resto in quella occasione nessuno ha avuto espressioni men che calorose per un uomo definito, dai medesimi avvocati, un magistrato “con la porta sempre aperta”. Al netto della retorica beneducata, ma anche po’ ipocrita, che caratterizza le cerimonie di investitura, fa piacere constatare un clima così ecumenico tra i generali di eserciti – quelli dei procuratori e degli avvocati romani – non avvezzi, fino a qualche anno fa, al reciproco scambio di cortesie. Resta però da vedere se lo stesso clima si può riscontrare anche tra le truppe.

La Procura di Roma di Pignatone, – del quale gli annali ricordano un discorso di investitura nella stessa sede dal tratto ben più ruvido persino nei confronti dei suoi pm – si è infatti caratterizzata negli ultimi anni non solo per la spasmodica ricerca di conglomerati mafiosi nel territorio di competenza – con risultati altalenanti, vista la debacle di Mafia Capitale che nessuno ha avuto la maleducazione di ricordare al neoeletto – ma anche per una certa inclinazione al controllo delle attività difensive che il Foro non ha certo gradito, ivi incluso l’utilizzo giudiziario di conversazioni tra avvocati e clienti casualmente intercettato.

Furono proprio i penalisti di Roma, per fare un esempio, qualche tempo dopo l’esecuzione delle misure cautelari riguardanti Mafia Capitale, a licenziare un durissimo documento dal significativo titolo Il Diritto di difesa nel mondo di Mezzo nel quale si poteva leggere che «l’esplicazione del mandato difensivo e gli stessi contatti tra clienti ed avvocati» risultavano monitorati e citati nelle informative di quella indagine, ovvero che un avvocato era stato «sottoposto a servizio di osservazione – pedinato si sarebbe detto un tempo» nonostante non fosse mai stato ipotizzato a suo carico nessun atto illecito e neppure deontologicamente scorretto. Una iniziativa della polizia giudiziaria mai censurata dalla Procura, definita “gravissima” dai penalisti.

Così come non ha mai ottenuto consensi tra i penalisti romani neppure l’esaltazione mediatica, con contestuale diffusione diretta di atti giudiziari, filmati di arresti inclusi, delle indagini di punta dell’ufficio capitolino. Si pensi alla insistente campagna di stampa di nuovo su Mafia Capitale, con la pubblicazione del video dell’arresto di Carminati e delle conversazioni videoregistrate di Buzzi, oppure alla esecuzione del provvedimento cautelare che recentemente ha colpito una avvocatessa trasmesso praticamente in diretta da una troupe televisiva della trasmissione di Giletti. Pratiche che la legge non permette e che le Procure lasciano correre, a Roma, a Palermo o a Reggio Calabria, non fa differenza, tanto per citare uffici ove Prestipino ha lavorato.

Insomma anche il nuovo Procuratore dovrà fare i conti, sempre per citare il datato (ma non sorpassato) documento dei penalisti romani con la “pilotata fuoriuscita quotidiana di parti informative di polizia giudiziaria che raggiungono lo scopo della preventiva distruzione della immagine degli indagati” che a Roma si verifica da anni.

Ed allora, se alle parole seguiranno i fatti, come auspicabile, più che alla continuità con il recente passato ci si deve augurare che Michele Prestipino dedichi una parte del suo tempo a modificare comportamenti e pensieri dei suoi dipendenti che contraddicono sia la regola del silenzio che le parole illuminate di Bachelet.