L'atroce caccia ai profughi
Migranti deportati o affogati, Italia complice della mattanza nel mare tunisino
Gli obitori di Sfax straboccano di cadaveri di migranti subsahariani affogati in mare. L’allarme lanciato dal direttore della Sanità Regionale Hatem Cherif, rimbalzato in tutte le agenzie stampa del Mediterraneo, si poteva ascoltare in viva voce su Radio MosaiqueFM. Da Trapani, da Mazara del Vallo, da Pantelleria e Lampedusa, dove il segnale e la musica dell’emittente arrivano forti e chiari.
La Tunisia è qui, a 100 km di mare, 14 ore di traghetto da Palermo, 2 ore di aereo. Tunisia è casa per migliaia di italiani, e i legami di vicinato che uniscono il nostro sud con le loro coste a nord, datano millenni di storia. L’immagine dei poveri corpi senza nome né diritti, nemmeno da morti, accatastati dentro gli stanzoni ospedalieri del complesso di medicina legale dell’ospedale universitario Habib Bourghiba, non può non prendere la gola. Se sei lì, lo fa anche fisicamente. Un’obitorio pensato per trentacinque salme, quando ne ha cento, emana un’odore forte, che la formalina e i deodoranti chirurgici non riescono a contenere. Dall’inizio dell’anno, secondo l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, 450 morti accertati nel mare tunisino, un numero indefinito di dispersi.
La Tunisia non è, ancora, la Libia. «Ma non è più una democrazia», dice l’European Council on Foreign Relation, riferendosi alla svolta autoritaria impressa dal presidente dittatore Saied, che ha usato il potere ottenuto a furor di un popolo sfiancato dall’economia stagnante e infuriato con la “casta”, con le elezioni di due anni fa, per sciogliere tutto, dal parlamento alla Corte Suprema, e incarcerare un bel po’ di oppositori politici e giornalisti. Al sud, a Zarzis, tempo fa le autorità ci hanno provato a far sparire 18 cadaveri di un naufragio, seppellendoli alla meglio per non dover spiegare niente ai familiari. Ma la popolazione si è ribellata, con scontri e barricate durati giorni. Anche a Sfax, dove lavorano medici e ricercatori dentro quel dipartimento di Medicina legale, non è così semplice liberarsi dei corpi che il mare ha restituito, anche se quelle erano vite di “subsahariani”, donne, uomini e bambini profughi, non di tunisini con famiglie che li reclamano.
Lo stesso mare che restituisce i corpi adagiandoli sulle spiagge, come a Cutro, a volte aiuta le autorità inghiottendo, o portando lontano dagli occhi, a seconda delle correnti. Il mare è il cimitero giusto, nessuna lapide segnala che lì, in quel punto, è avvenuto un naufragio. In mare anche gli speronamenti dei barchini ad opera delle motovedette della Guardia Nazionale Tunisina non lasciano tracce. Se non c’è qualcuno che li filma con il telefonino e riesce poi a rimanere vivo, o dall’alto di un’aereo civile, perché quelli militari o di Frontex vedono tutto ma non parlano, coperti dal segreto militare, in mare non restano che relitti. Ma quei barchini, si sa, sono delle bare galleggianti già in partenza, e a nessuno viene in mente di indagare se qualcuno la bara, l’abbia spinta a fondo, con tutto il suo carico umano che non sarà più un problema né in Tunisia né in Italia.
Ma per fortuna i sopravvissuti ci sono, nonostante i quasi seicento morti del 2022, e foto, video, testimonianze sulla brutalità che la Guardia tunisina, che fa capo al Ministero degli Interni, utilizza nel catturare e affondare o deportare i migranti in mare, sono già alla Corte Europea e alle Nazioni Unite. A dicembre dello scorso anno un vasto raggruppamento di organizzazioni della società civile tunisina, italiana ed europea, ha denunciato tutto questo in un documento dal titolo “I naufragi provocati consapevolmente al largo della Tunisia devono cessare”. La Guardia Nazionale usa vecchie motovedette italiane – e qui rispunta il “sistema” Libia – sistemate dai soliti Cantieri Vittoria di Adria, in provincia di Rovigo. È una storia di successo dell’imprenditoria italiana, di quella media impresa a conduzione familiare, questa dei Cantieri Vittoria. Se non ci fosse da preparare mezzi per la cattura e deportazione nel Mediterraneo dei profughi, forse avrebbero chiuso.
E invece, vedi l’ingegno italico: nel dicembre 2020, l’appalto per la manutenzione e rimessa in efficienza di sei motovedette P350, già donate dall’Italia alla Tunisia nel 2014, se lo aggiudica il Cantiere Vittoria. Anche perché è l’unico concorrente. Sei milioni e mezzo di euro a sostegno della nostra economia. Ma il Vittoria è davvero fortunato, oltre che operoso: è lo stesso che si era beccato l’appalto nel 2014 per la costruzione di ben dodici motovedette per la guardia tunisina, incassando altri sedici milioni e mezzo di euro. E poi, sempre il cantiere di Adria, di nuovo, altri quattro milioni nel 2021. E poi c’è da costruire le cinque motovedette P300 per i libici, per Bija, quello accusato di essere tra i peggiori trafficanti di esseri umani etc. etc.. Altri dodici milioni e mezzo.
Ma già che ci siamo è sempre lo stesso cantiere che giusto ieri, ha celebrato con tanto di cerimonia e Comandante della Guardia Costiera italiana presente, la posa della chiglia della nuova nave multiruolo, una cosa da molti più zeri. Altro che il business dell’accoglienza: il business dei respingimenti in mare sembra davvero andare a gonfie vele per l’impresa italiana. Naturalmente sono tutti fondi che provengono dalle risorse destinate allo “sviluppo” della Tunisia o della Libia. Ma prima degli ospedali, delle scuole, delle case, del grano che con la guerra in Ucraina manca, è ovvio che bisogna pensare a come addestrarli a fermare, con ogni mezzo, gli esseri umani in mare. O in terra, nei lager, come in Libia. Anche uno stupido capisce che si tratta della priorità. Per noi.
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