L’accordo tra Italia e Albania sui migranti presenta due profili distinti e allo stesso tempo connessi. Una prima valutazione è sintetizzata dalla stampa con toni da verdetto già emesso, come “missione fallita” e “flop navale”. A oggi non può che registrarsi uno sfavorevole rapporto costi-benefici, tanto che si ventila un intervento della Procura della Corte dei Conti per danno erariale. Insomma Tirana, come già nel passato, non sembra che ci porti bene. Navigando poi nelle agitate acque della politica italiana, non sfugge un peculiare aspetto giuridico, alla luce dall’espressione di Carlo Nordio: il Guardasigilli ha fatto infuriare le opposizioni per aver usato la parola “abnorme” in riferimento al provvedimento adottato dai giudici romani, che hanno rispedito in Italia il gruppo di migranti trasferito pochi giorni fa nel centro di Gjader. È evidente che quello del ministro della Giustizia è un lessico appropriato: bisogna ricordare che l’aggettivo, considerando il senso del discorso, viene usato per giudicare i provvedimenti processuali. Come afferma la Corte Suprema, “sul piano generale, viene ritenuto affetto da abnormità [..] il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale.” (Cfr., Cass. Pen. Sez. IV. n. 37751 del 15 ottobre 2024).

Migranti in Albania, l’abnorme di Nordio e la Corte di Giustizia Ue

L’eccesso ipotizzato dal ministro va verificato: deve fare i conti con la pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 4 ottobre 2024 (causa c-406/22). La CGUE non si limita a garantire il rispetto dei Trattati, ma ha un ruolo strategico: è il primo motore di formazione del diritto eurocomunitario. Nella sentenza del 4 ottobre 2024, la Grande Camera ha interpretato una direttiva comunitaria in tema di diritto di asilo. È così tornata al centro del dibattito la nozione di paese sicuro. Nel decreto della 18esima sezione del Tribunale di Roma del 18 ottobre 2024 si parte proprio dal rilievo espresso dalla Corte di Giustizia Ue, secondo cui le condizioni di sicurezza personale (politiche, religiose, sessuali, non discriminatorie) devono essere rispettate per tutti, generalizzate.

Il giudice romano, nello specifico, si è riferito all’assenza della generalità delle condizioni di sicura vivibilità, richiamando la scheda-paese dell’istruttoria del ministero degli Affari esteri in cui l’Egitto (nazione del migrante ricorrente) viene definito paese sicuro, “ma con eccezioni per alcune categorie di persone”. C’è quindi una prescrizione di origine governativa su cui il decreto del Tribunale di Roma si basa, aderendo all’affermazione della Grande Camera: “La designazione di un paese come paese di origine sicuro dipende […] dalla possibilità di dimostrare che, in generale e in modo uniforme, non vi è mai ricorso alla persecuzione come definita all’articolo 9 della direttiva 2011/95, né alla tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti e che non esiste alcuna minaccia dovuta alla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno”.

Perché il nuovo decreto rischia il flop

In sintesi, il percorso giuridico del decreto è assai stretto: da un lato c’è una designazione di paese sicuro (di fonte ministeriale) che non è di per sé esaustiva; dall’altro c’è il richiamo della Corte di Giustizia alla necessaria generalità e uniformità delle condizioni di sicurezza. Per la sentenza dell’organo giurisdizionale Ue, “l’allegato 1 specifica, in particolare, che un paese terzo può essere considerato un paese di origine sicuro quando, sulla base della situazione giuridica, dell’applicazione della legge nel quadro di un regime democratico e delle circostanze politiche generali, si può dimostrare che, in modo generale e uniforme, non si fa mai ricorso alla persecuzione, come definita dall’articolo 9 della direttiva 2011/95, né alla tortura, né a sanzioni o trattamenti inumani o degradanti e non esiste minaccia dovuta a violenza indiscriminata in situazioni di conflitto internazionale o interno”. Volendo esercitarsi nella critica, si può osservare che il parametro europeo è così elevato che non appare certa la sua applicazione in tutto il mondo. Verrebbe da chiedersi se l’America, la Cina e forse anche l’Italia rispettino uno standard del genere.

È importante anche soffermarsi sul passaggio della sentenza Ue in cui si precisa che “gli Stati membri […] devono garantire che il giudice davanti al quale è impugnata la decisione relativa alla domanda di protezione internazionale di cui trattasi proceda ad un pieno esame ex nunc sia degli elementi di fatto che di diritto, compreso, se del caso, un esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della direttiva [2011/95]”. E poi viene aggiunto: “Pertanto, il giudice competente a statuire sul […] ricorso deve esaminare, nell’ambito di esso, la legittimità di una siffatta designazione ai sensi dell’articolo 46, paragrafo 3”. In altri termini, il principio dell’effettiva tutela giurisdizionale impone accertamenti processuali completi ed approfonditi.

Dunque l’attività dei giudici del Tribunale di Roma non è certo “abnorme”, ma in linea con i rigorosi parametri che si evincono chiaramente dalla giurisprudenza europea. Chi critica i giudici sta criticando l’Europa. Il giudice del caso concreto deve indagare sulle caratteristiche personali e territoriali, mentre alla politica spetta il compito di normare (a livello primario o secondario) gli aspetti rilevanti nel (limitato) perimetro operativo. Dato il percorso obbligato, l’annunciato decreto-legge che disciplinerà la materia in tema di definizione di “paese sicuro” potrebbe dunque rilevarsi non del tutto innovativo o determinante. A maggior ragione visto che proprio l’Egitto non è estraneo a metodi di tortura, come insegna la vicenda del doloroso omicidio di Giulio Regeni di cui si sta occupando la Corte d’Assise di Roma.

Bartolo Conratter

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