Nessuna persona ragionevole rifiuta l’idea che l’immigrazione debba essere gestita con criterio. Ma nessuna persona onesta manca di vedere che le inibitorie e le complicazioni frapposte all’ingresso dei migranti nel nostro Paese hanno molto poco a che fare con quelle esigenze di ordinata e proficua integrazione, e semmai rispondono al proclama prima gli italiani”.

E allora varrà la pena di ricordare che un’impostazione diversa, rivolta all’accoglienza più vasta e all’integrazione quanto più effettiva e consistente dei migranti, non risponde soltanto a vaghezze caritatevoli e umanitarie, ma a un’istanza liberale che vede nell’immigrazione un elemento di arricchimento competitivo e diversificatore, uno stimolo alla concorrenza e al mercato del lavoro, un pungolo ai fianchi delle molte posizioni di rendita garantite, per via di “specificità italiana”, ad ampie fasce di lavoro protetto non nei diritti, ma nel privilegio.

La teoria secondo cui dovremmo misurare le politiche dell’accoglienza tenendo i numeri attestati sul nostro bisogno di un’immigrazione da un lato “legale”, e dall’altro lato per noi “utile”, copre una coppia di verità poco frequentate. La prima: che l’immigrazione non è illegale per conto proprio, ma perché la facciamo tale. E la seconda: che in realtà i migranti vanno bene e anche in gran numero, a patto che vadano nelle piantagioni schiaviste a raccattare ortaggi. Quella teoria si duole della mancanza, sui barconi, di immigrati “utili”, ma non dichiara la propria buona disponibilità a utilizzarli in modo esclusivo come bestie da lavoro.

In realtà ciò che ripugna a molti tra quelli che reclamano un’immigrazione “controllata e di qualità” è l’idea che una schiatta non autoctona attenti al supposto equilibrio italiano, un equilibrio anti-competitivo e di progressivo declino che un’inoculazione di sangue diverso ed energie forestiere potrebbe alterare in modo favorevole per tutti. Ed è ben vero che per alcuni l’integrazione del migrante si riduce in prospettiva alla pratica di allocarlo sul conto del nostro welfare.

Ma è altrettanto vero che per altrettanti, sul fronte avversario, l’integrazione non va bene per ragioni esattamente opposte rispetto a quelle dichiarate: e cioè perché si porrebbe a premessa di ambizioni sociali e professionali capaci di insidiare quelle ossificate per diritto di nascita, per sedimento anti-meritocratico, per concrezione dei minuti e diffusi privilegi che non hanno preservato, ma insterilito per chiusura consanguinea, il corpo civile e produttivo del Paese.

Non saremmo a questo penoso livello del dibattito pubblico se certi presunti liberali sapessero che proprio l’ottica liberale reclama bensì regole, ma in un quadro di libertà dell’immigrazione. E non il contrario, e cioè un quadro di divieti e piccole zone di riserva per tenere gli immigrati al loro posto di schiavi.