Sinisa Mihajlovic vuole tornare a essere chiamato “zingaro di merda”. Lo ha detto in un’intervista al Corriere della Sera, raccontando della sua malattia, dichiarata in una conferenza stampa il 13 luglio 2019. Leucemia. È grato per gli applausi, la compassione, l’affetto dei tifosi e del pubblico, ma adesso basta, spiega non senza ironia. Suo malgrado, l’allenatore serbo del Bologna, ex calciatore di Lazio, Inter, Roma, Stella Rossa, è diventato un simbolo. Quando lo ha capito ha voluto lanciare un messaggio; il 25 agosto 2019, alla prima di campionato contro il Verona è tornato in campo per la prima volta. “Peso 75 chili, ho solo 300 globuli bianchi in corpo. Imploro i medici di lasciarmi andare. Rischiavo di cadere per terra davanti a tutti e un paio di volte stavo per farlo. Nel sottopassaggio mi sentivo gli sguardi di compassione addosso. Quando mi sono rivisto in televisione, non mi sono riconosciuto”.
È sempre alle prese con controlli e analisi Mihajlovic. “Ogni volta mi prende l’ansia”, dice. E aggiunge che se da una parte la malattia l’ha reso un uomo migliore, da un’altra non si tratta di una questione tra vincenti o perdenti. Chi non ce la fa “non è certo un perdente. Non è una sconfitta, è una maledetta malattia. Non esiste una ricetta, io almeno non ce l’ho. Tu puoi sentirti un guerriero, ma senza dottori non vai da nessuna parte. L’unica cosa che puoi fare è non perdere voglia di vivere. Il resto non dipende da noi”.
All’ospedale Sant’Orsola, per non attirare curiosi, gli è stata data un’altra identità: Cgikjltfr Drnovsk, 69enne senza fissa dimora. “Trovavo ironico quel senza fissa dimora affibbiato a me, che in ogni stadio ero accolto dal coro di zingaro di m …”. E quindi racconta dello scontro all’Olimpico con Patrick Vieira: tre giornate di squalifica per aver dato al franco-senegalese del “negro di m…”. “Sbagliai – dice Mihajlovic – e tanto. Lui però mi aveva chiamato zingaro di m… per tutta la partita”, “nei confronti di noi serbi il razzismo non esiste”.
Un’intervista a tutto campo, quella a firma Marco Imarisio, in occasione dell’uscita del libro La partita della vita (Solferino). Che quindi ripercorre anche la guerra nei Balcani; l’inizio delle tensioni nell’ex Jugoslavia proprio sui campi di calcio; l’amicizia con il criminale di guerra Zeljko Raznatovic, detto la Tigre di Arkan, dalle cui gesta il ct prende le distanze; del suo rapporto con la città di Bologna. Fino a oggi, sulla panchina dei rossoblù, da dove lancia un messaggio: “Non ci si deve vergognare della malattia. Bisogna mostrarsi per quel che si è. Volevo dire a tutte le persone nel mio stato, ai malati che ho conosciuto in ospedale di non abbattersi, di provare a vivere una vita normale, fossero anche i nostri ultimi momenti”.