"Non sono un fascista come ha detto qualcuno per Arkan, sono più comunista di tanti"
Mihajlovic e l’amicizia con la Tigre di Arkan: Zeljko Raznatovic, il criminale di guerra della Jugoslavia
Sugli spalti dello Stadio San Nicola di Bari c’era anche lui: Sinisa Mihajlovic calciava e segnava il quarto rigore nella finale e la Stella Rossa di Belgrado vinceva la Coppa dei Campioni del 1991. E lui era Zeljko Raznatovic, noto come il comandante Arkan, la “Tigre di Arkan”, capo degli ultras della squadra della squadra della capitale serba e leader del gruppo paramilitare delle Tigri, responsabile di crimini contro l’umanità nelle guerre dei Balcani tra Croazia e Bosnia. Quando anni dopo morì, assassinato in una sorta di esecuzione nella hall di un hotel a Belgrado, Mihajlovic gli dedicò un affettuoso necrologio. E per quel necrologio venne sempre condannato.
È il lato considerato controverso e oscuro nella vita e nella carriera del calciatore serbo, per trent’anni in Italia e quindi italiano d’adozione per i trascorsi tra campi e panchine. Pallone che assunse grande influenza e significato nella deflagrazione e nella disintegrazione dell’ex Jugoslavia. Mihajlovic è morto oggi, a 53 anni, come confermato dalla famiglia. Dal 2019 lottava con una leucemia mieloide acuta. Oltre che per le sue caratteristiche di difensore arcigno ma dal piede delicato, gli appassionati di calcio e non avevano imparato ad apprezzarlo anche per il carattere con il quale aveva condotto la sua lotta contro la malattia. Non si era mai risparmiato Sinisa Mihajlovic, neanche nel raccontare il capitolo doloroso delle guerre che avevano funestato il suo Paese.
Chi era Zeljko Raznatovic
Guerre violentissime e fratricide. Arkan era nato nel 1953, in Slovenia: due matrimoni, sette figli, ricercato in diversi in Paesi europei e in galera tra Svezia, Belgio, Olanda e anche in Italia. Era stato tra gli uomini più ricercato dall’Interpol negli anni Ottanta per i suoi crimini coperti dall’attività di agente segreto per conto del governo jugoslavo (per l’UBDA, la polizia segreta jugoslava). Il soprannome arrivava forse da un falso passaporto turco o forse da una tigre che compariva in uno dei suoi fumetti preferiti. Il primo arresto a meno di 18 anni per la rapina in un bar di Zagabria. Di ritorno in Serbia aveva unito la tifoseria della Stella Rossa con i suoi Delije, “gli eroi”, e la società gli aveva donato una pasticceria diventata il suo “covo”.
Era stato convocato dai vertici jugoslavi per organizzare circa tremila uomini delle milizie volontarie che aveva reclutato tra i tifosi del Marakana, lo stadio della Stella , e tra i reclusi nelle carceri di Belgrado. Raznatovic aveva quindi gestito il Centro per la Formazione Militare del Ministero per gli Affari Interni serbo e formato la “Guardia Volontaria Serba” che avrebbe preso il nome di “Tigri di Arkan” – a quanto pare per via del cucciolo di tigre che il comandante sosteneva di aver rubato nello zoo di Zagabria – che a partire dall’autunno 1991 ha operato come unità paramilitare lungo la frontiera serbo-croata.
I crimini delle Tigri di Arkan
L’unità paramilitare di Arkan operava allora nel quadro della 6 brigata del corpo d’armata (JNA). Al 4 aprile 1992 risale la strage di 17 persone a Bijelijna da parte dell’unità: con una bomba nel Caffè Istanbul e un’altra bomba presso il macellaio del apese. Le Tigri sarebbero state accusate di altri 400 omicidi nei giorni successivi. La presidentessa della zona controllata dalla Serbia, Biljana Plavsicsi, si recò a Bijeljina per baciare Arkan davanti alle telecamere. Altra carneficina a Brcko: 600 vittime negli insediamenti bosniaco-musulmani con tanto di campo di concentramento. 40 vittime davanti alla moschea di Glogovac. Oltre 20mila persone massacrate a Prijedor e dintorni, 700 a Sanski Most, a Cerska 700 persone.
Le Tigri furono accusate anche di aver aiutato Ratko Mladic a portare a termine il genocidio di Srebrenica, con oltre ottomila vittime. L’unità rimase attiva fino all’ultimo giorno di guerra in Bosnia distinguendosi per efferatezza e per la pulizia etnica tra Banja Luka, Sanski Most e Prijedor. Raznatovic tramite saccheggi, contrabbandi di armi, benzina, sigarette e macchine rubate accumulò una fortuna. Era stato presidente di un club di calcio di una serie minore, l’FK Obilic di Belgrado, che vinse anche il campionato e partecipò alla Champions League. La presidenza passò alla moglie, la cantante folk Svetlana “Ceka” Velikrovic, che aveva sposato nel 1995, dopo gli attacchi della stampa italiana.
Raznatovic nel 1992 era stato anche eletto in Parlamento. Fu l’ex segretario di Stato americano Lawrence Eagleburger a indicarlo come responsabile di operazioni di ‘pulizia etnica’ per le quali era stato accusato anche dai giudici del Tribunale penale per la ex Jugoslavia dell’Aja. Alla vigilia della guerra del Kosovo Arkan disse minaccioso: “Se le truppe Nato entreranno in Jugoslavia i miei uomini combatteranno contro di loro”. Secondo la Nato, nella prima fase della guerra, le sue bande avevano ucciso centinaia di albanesi nella zona di Pec. Negli ultimi mesi di vita si era un po’ allontanato dal leader serbo Slobodan Milosevic. Venne ucciso il 15 gennaio 2000 nella hall dell’Intercontinental Hotel di Belgrado dove era seduto e chiacchierava con due suoi amici. A sparare un poliziotto 23enne in congedo, Dobrosav Gavric, che uccise anche altri due collaboratori di Arkan presenti. La notizia diede il là a diverse spedizioni punitive. Circa ventimila persone parteciparono ai suoi funerali.
L’amicizia con Mihajlovic
Sinisa Mihajlovic lo definì “un eroe per il popolo serbo” nel suo necrologio che, ammise in un’intervista a Il Corriere della Sera, avrebbe riscritto anche ad anni di distanza. Fu anche accusato di aver chiesto ai tifosi della Lazio di esporre all’Olimpico uno striscione dedicato ad Arkan. E in effetti uno striscione venne esposto nella partita contro il Bari, nella 19esima del campionato di Serie A: “Onore alla Tigre di Arkan”, del quale il calciatore si disse però estraneo. “Voi parlate di atrocità, ma non c’eravate. Io sono nato a Vukovar, i croati erano maggioranza, noi serbi minoranza lì. Nel 1991 c’era la caccia al serbo: gente che per anni aveva vissuto insieme da un giorno all’altro si sparava addosso. È come se oggi i bolognesi decidessero di far piazza pulita dei pugliesi che vivono nella loro città. È giusto? Arkan venne a difendere i serbi in Croazia. I suoi crimini di guerra non sono giustificabili, sono orribili, ma cosa c’è di non orribile in una guerra civile?”.
Il primo incontro con Mihajlovic quando questi giocava nella Vidiova. A bordo campo Arkan e fu scontro a muso duro. Il calciatore non sapeva chi fosse, quando lo scoprì “il nome mi fa correre un brivido lungo la schiena”, ha raccontato nella sua autobiografia La partita della vita. Al ritorno niente partita per Sinisa, per sicurezza, che andò in tribuna e poi a mangiare un gelato fuori allo stadio: era la gelateria di Arkan. Il terzo incontro quando il centrocampista arrivò alla Stella Rossa. “Arkan fu gentile, affabile, alla mano. Simpatico. Quando era tranquillo, sapeva essere piacevole. Un uomo totalmente diverso dal sanguinario leader di milizie durante il conflitto che avrebbe devastato il Paese”. Per qualsiasi cosa, per ogni evenienza, il capo degli ultras gli lasciò suo numero di telefono.
Mihajlovic ha sempre preso le distanze dai crimini commessi da Arkan ma non ha mai rinnegato quel rapporto, confermando quello che aveva sempre sostenuto: che l’amicizia risaliva ai tempi della Stella Rossa e che l’ultras-paramilitare si “comportò sempre bene” con lui e con i suoi compagni di squadra. “Quando da Vukovar si spostarono a Belgrado, mia mamma chiamò suo fratello, mio zio Ivo, e gli disse: c’è la guerra mettiti in salvo, vieni a casa di Sinisa. Lui rispose: perché hai portato via tuo marito? Quel porco serbo doveva restare qui così lo scannavamo. Il clima era questo. Poi Arkan catturò lo zio Ivo che aveva addosso il mio numero di telefono. Arkan mi chiamò: ‘C’è uno qui che sostiene di essere tuo zio, lo porto a Belgrado’. Non dissi niente a mia madre, ma gli salvai la vita e lo ospitai per venti giorni”,
In quella stessa intervista al Corriere della Sera Mihajlovic replicava a chi lo aveva definito fascista, in più occasione, durante la sua carriera. “Che vuol dire nazionalista? Di sicuro non sono un fascista come ha detto qualcuno per la faccenda di Arkan. Ho vissuto con Tito, sono più comunista di tanti. Se nazionalista vuol dire patriota, se significa amare la mia terra e la mia nazione, beh sì lo sono”.
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