Milan Kundera, un discorso ancora attuale: il valore del romanzo e Israele al centro dell’Europa

Quarant’anni fa lo scrittore Milan Kundera, autore de L’insostenibile leggerezza dell’essere, ricevette il Jerusalem Prize, il maggior riconoscimento letterario, che viene attribuito ogni biennio a Gerusalemme dall’organizzazione Jerusalem International Book Forum. In quell’occasione il romanziere tenne un discorso. Era il 1985 e da allora il mondo è profondamente cambiato, ma non molto quando si parla del cosiddetto Medio Oriente. In questo senso la riflessione, tutta culturale, che fece Kundera resta ancora di grande attualità. Il suo testo è un elogio del romanzo e della letteratura, intesa come un’arte che combatte verità assolute, luoghi comuni e illiberalità. Lo scrittore ha sempre sostenuto, validamente, che il romanzo è un’invenzione occidentale, ed è un’invenzione che racconta la pluralità dei punti di vista.

La saggezza del romanzo

“I grandi romanzi sono sempre un po’ più intelligenti dei loro autori”, dice Kundera. Potrebbe sembrare un’idea provocatoria, ma non lo è. Anzi, la frase, in definitiva, significa che uno scrittore deve necessariamente seguire (assecondare, direi) i personaggi del romanzo che sta scrivendo e quindi ascoltare punti di vista differenti dal suo. Uno scrittore deve credere a tutto. E soprattutto ai differenti punti di vista. Questo posizionamento fuori dall’egocentrismo, per una pluralità di voci che emergono alla realtà dalla finzione della narrativa, questa saggezza sovrapersonale, Milan Kundera la chiama “la saggezza del romanzo”. Una saggezza che nasce in Europa, alla fine del Medioevo, quando la letteratura comincia a raccogliere un ragguardevole corpus di opere scritte. E nasce in un momento di grande scambio cosmopolita tra gli intellettuali dell’epoca, chierici e nobili: un intreccio di esperienze e storie che è già una pluralità di voci e di argomenti, peraltro in varie lingue. Ma già in epoca classica (greco-romana) si era cominciato, in qualche maniera, questo percorso.

Il proverbio ebraico

Kundera, nel suo discorso, cita un proverbio ebraico: L’uomo pensa, Dio ride. E allora dice che l’arte del romanzo è venuta al mondo come eco della risata di Dio. Infatti, più si pensa più ci sfugge la verità, e ciascuno non è mai ciò che pensa di essere. Invece ci sono persone che sono convinte che la verità sia evidente, mentre – spiega Kundera – uno “diventa individuo proprio quando perde la certezza della verità e il consenso unanime degli altri”. Questa tenace fiducia nel romanzo, come arte suprema e sovrapersonale, va di pari passo con il riconoscimento di quanto questi tratti superiori si possano declinare anche a livello politico, vale a dire che tale sovranazionalismo è per Kundera il pane necessario per il riconoscimento che il valore del romanzo equivale al valore dell’Europa, di cui Israele ne è il cuore. “Un cuore esterno al corpo” europeo, ma pur sempre stretto al Vecchio Continente. Scrive Kundera: “le grandi personalità ebree, allontanate [nel corso dei secoli] dalla loro terra di origine, innalzate al di sopra delle passioni nazionaliste, hanno sempre mostrato una sensibilità eccezionale per un’Europa sovranazionale, un’Europa intesa non come territorio, ma come cultura. Se gli ebrei, anche dopo essere stati tragicamente delusi dall’Europa, sono rimasti fedeli a questo cosmopolitismo europeo, Israele, la loro piccola patria infine ritrovata, appare ai miei occhi come il vero cuore dell’Europa”.

Ma oggi, nella vulgata comune, l’Europa (l’Occidente, potremmo dire estensivamente) ha perduto questa saggezza, questa capacità di non disporre di verità granitiche, di non dipingere il mondo in bianco e nero. E nei confronti di Israele c’è ormai una sentenza: from the river to the sea, che significa la distruzione di Israele a opera del mondo arabo-musulmano e la conquista del territorio che va dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo, cioè la scomparsa dello stato di Israele. Eppure quella parte di mondo è sempre stata una pluralità di popoli. Così come questa arte plurale, il romanzo dice Kundera, “ha saputo creare quell’affascinante spazio immaginario in cui nessuno possiede la verità e in cui ciascuno ha diritto a essere capito. Questo spazio immaginario è nato con l’Europa moderna, è l’immagine dell’Europa o, almeno, il nostro sogno dell’Europa”. E forse, proprio in questo tempo di guerra non dichiarata e quasi permanente (non solo in Medio Oriente) dovremmo porci la domanda su quale sia, ogni volta, l’origine di tante guerre.

Il dolore di Kundera

Lo stesso scrittore sosteneva il motto “sento quindi sono”, perché diceva che gli umani pensano più o meno tutti le solite cose, su fronti diversi, hanno stesse speranze e stesse paure, ma se qualcuno mi pesta un piede quel dolore lo sento soltanto io e questo mi rende consapevole: posso reagire o soccombere, ma qualcuno mi ha procurato comunque quella ferita. Kundera conclude il suo discorso di Gerusalemme in questa maniera, non proprio criptica per chi ha orecchie per intendere: “Se infatti la cultura europea mi sembra oggi minacciata, se essa è minacciata dall’esterno e dall’interno in ciò che ha di più prezioso, il suo rispetto per l’individuo, il rispetto per il suo pensiero originale e per il suo diritto a una vita privata inviolabile, allora, mi pare, questa essenza preziosa dello spirito europeo è deposta come in uno scrigno d’argento nella storia del romanzo, nella saggezza del romanzo”. La difesa della pluralità di voci, contro il pensiero unico divino o totalitario, contro tutto ciò che da alcune nazioni arriva come distruzione dei diritti delle donne, della vita, delle libertà.