Maurizio Molinari non è stato rimosso dalla direzione di Repubblica perché è ebreo. È stato rimosso dalla direzione di quel giornale, dopo esserne stato almeno un paio di volte sfiduciato, perché non è un ebreo “meritevole”. Vale a dire l’ebreo disponibile, e anzi proclive, a scrivere che Israele usurpa da settantasei anni quella terra, che vi ha impiantato un regime colonial-razzista e che dopo il 7 ottobre dell’anno scorso ha programmato e attuato un programma di genocidio del popolo palestinese.

I titoli

L’ebreo meritevole è colui che, “in quanto ebreo”, è chiamato a fare quei riconoscimenti e a formulare quelle denunce. Perché “in quanto ebreo” reca la colpa di quel lungo corteo di delitti, e merita assoluzione a patto che se ne assolva riconoscendoli e denunciandoli. Per stare all’esempio di Molinari (ma ne faremo immediatamente altri): non bastava che egli mettesse in pagina, sul giornale che dirigeva, la domanda di Tahar Ben Jelloun: “Quante vittime palestinesi serviranno a Netanyahu per appagare il suo desiderio e volontà di vendetta?” (Repubblica, 16 Novembre 2023). Non bastava che Uri Davis, su quelle stesse pagine dirette da Molinari, scrivesse che “Prima di tutto, Israele è uno Stato segregazionista”, e che occorre “sostituire la sovranità di Israele segregazionista con la sovranità di quello palestinese” (Repubblica, 18 Novembre 2023). Non bastavano titoli come “Tre giorni di blackout: così Israele ha coperto le nuove stragi a Gaza” (la Repubblica, 19 Dicembre 2023), o “Strage nei campi profughi, duecento morti a Gaza” (Repubblica, 27 Dicembre 2023).

Molinari poteva restare

Occorreva che Molinari si obbligasse all’esercizio supplementare di intestare alla propria persona, gravata di ebraicità, una generale professione di inimicizia verso lo Stato Ebraico. E di emettere in proprio, in quanto ebreo, una condanna delle propensioni genocidiarie israeliane attenendosi al protocollo sudafricano e al monito del Segretario Generale delle Nazioni Unite secondo cui i massacri del 7 ottobre non vengono dal nulla.
A quel patto poteva, forse, meritare fiducia e, forse, restare. Forse: perché è una presenza intrinsecamente inappropriata, e dunque precaria, quella di chi ha bisogno di dimostrarsi meritevole tramite quella trafila di purificazione.

Insulti e minacce

Lo stesso meccanismo funziona nel caso della conferenza o della presentazione editoriale tenuta dal giornalista ebreo: ha diritto, o speranza, di non essere cacciato dalle squadracce universitarie se la sua militanza si profila in quel modo, con la reiterazione del proclama antisionista. È un requisito che non si ricerca nel signor Tizio o nel dottor Caio. L’ebreo deve invece dimostrane il possesso. Possiamo spostarci altrove, rimanendo sempre lì. Non si richiede a qualsiasi senatore a vita di dichiarare – come vuole una consulente dell’Onu, celebrità presso i cortei filoterroristi – che “gli ebrei stanno facendo ai palestinesi ciò che i nazisti hanno fatto agli ebrei”. Ma a una vegliarda ebrea questo invece si richiede: e se lei non lo fa, se lei non si sottopone agli adempimenti e alle formule di quel rito inquisitorio, allora è insultata e minacciata.

L’ebreo può dirigere un grande giornale?

Identico lo schema quando due ebrei italiani, un vecchio e un bambino, sono aggrediti davanti a una scuola ebraica. La Comunità Ebraica – è giunto a dire qualcuno – non può denunciare l’accaduto e deve “accettarlo”, deve accettare che a un bimbo e a un anziano si urli “assassini”, “pezzi di merda” e “figli di puttana”. Deve accettarlo perché il rabbino studia la Bibbia anziché firmare appelli per la condanna di Israele. Che tutto questo non sia compreso è il segno di quanto progresso abbia fatto nel giro di pochi mesi il pregiudizio antisemita. Non è ancora vero che l’ebreo non può dirigere un grande giornale. Ma è già vero che per dirigerlo deve essere l’ebreo che lo merita. Non è ancora vero che un vecchio e un bambino ebrei possono essere liberamente aggrediti. Ma è già vero che bisogna accettarlo se non si dichiara che il primo ministro di Israele è un criminale di guerra.