Parla l'ad della Fattoria Barbi
Montalcino, storia e attualità di un territorio magico
Quando arriva all’appuntamento, Stefano Cinelli Colombini, amministratore delegato della Fattoria dei Barbi, 204 ettari in località Podernovi a Montalcino, dei quali 56 a vigneto, è trafelato. «Arrivo da una riunione per creare il distretto rurale di Montalcino. Vogliamo valorizzare i prodotti di questo territorio – olio, tartufo, aglione, formaggio pecorino, grano, farro, miele, zafferano – secondo la logica di una docg del vino». D’altra parte, ci tiene a precisare, «anche noi siamo una fattoria». Non a caso, l’azienda ha ripristinato di recente il caseificio per la produzione di formaggi a base di pecorino, mentre è sempre attiva la Taverna che offre gustosi piatti della tradizione familiare toscana.
Basterebbe questo esordio per raccontare Stefano Cinelli Colombini, viticultore di una famiglia che vanta una storia lunga secoli, integrato nel suo territorio al punto da diventarne testimone vivente e instancabile promotore. Classe 56, laureato in legge, Colombini si occupa delle tenute di famiglia dal 1981 e dal 2015 è anche vice-presidente del Consorzio del Brunello di Montalcino. Una storia di dedizione totale, testimoniata dal suggestivo percorso genealogico che evidenzia lo stretto intreccio tra le vicende della famiglia e quelle del territorio. Colombini ha pure realizzato un museo della Comunità di Montalcino e del Brunello, di proprietà della famiglia, ma a disposizione della comunità e di tutti i visitatori che hanno sete di conoscere l’antropologia e la storia locali. Nulla di strano se si pensa che Fattoria dei Barbi è stata, nel 1949, la prima cantina aperta d’Italia.
Ma al centro di tutto restano sempre l’uva e il vino. «Quest’anno abbiamo avuto una vendemmia straordinaria. È la terza annata a cinque stelle», assicura Stefano. E qui il cronista si mette le mani nei capelli perché alla terza vendemmia straordinaria consecutiva non si sa più cosa inventarsi! «Merlot e Cabernet – come i bianchi – soffrono il caldo. Al Sangiovese, invece, il caldo fa bene», spiega Cinelli Colombini. Le conseguenze sul lavoro sono importanti: «Bisogna potare molto più tardi, almeno a marzo. Con le potature tardive non c’è rischio di abbassare la qualità. Un tempo si potava a dicembre o a gennaio per una più efficace gestione dei tempi di lavoro. Ora invece serve un adattamento a situazioni climatiche diverse». In campagna la questione del cambiamento climatico è diventata esperienza quotidiana. «Del climate change parlano soltanto i climatologi che però non sanno nulla della pianta», dice Colombini. «Serve un’analisi degli effetti della maturazione del clima. In altri tempi in ottobre la vite avrebbe chiuso la vegetazione e sarebbe andata a riposo. Oggi invece resiste ancora un po’ dopo la raccolta delle uve», assicura mostrando lo stato vegetativo delle piante.
Nelle vigne di Fattoria dei Barbi si procede alla riduzione delle foglie del 40%: questo garantisce la riduzione di consumo di acqua, un ottimo metodo per proteggersi dalla siccità. La pianta è gestita come una siepe: tutte le foglie sono esposte al sole, non importa qual è l’orientamento. In questo modo si produce poco e l’uva è di maggiore qualità. L’aratro “talpa”, scavando la terra, recide l’apparato radicale e così rinvigorisce le vigne: «Se rompi le radici, costringi la pianta a cercare nutrimento in profondità». Avvisa Colombini: «Con questo caldo il futuro non sono i vigneti secolari. Ogni trenta anni le piante vanno sostituite». Il terreno a base di galestro, poco fertile, tipico della zona, aumenta lo stress della pianta e migliora la qualità delle uve. La pianta è proiettata verso l’alto per evitare che i cinghiali mangino le uve. Spiega Colombini: «Sono per l’attività biologica del terreno, ma contrario all’uso di rame e zolfo che alla lunga hanno effetti discutibili sulla vigna: basti pensare che il rame non è biodegradabile. Usiamo alcuni accorgimenti biodinamici come il siero di latte che fa sparire l’oidio. Poi lasciamo crescere altre piante nelle vigne, ma questo ormai lo fanno tutti». Il sistema di allevamento adottato è quello del cordone libero, che permette una forte riduzione dell’uso di fitofarmaci, del fabbisogno idrico e della manodopera, migliorando la sanità e la qualità dell’uva. La densità media è di 5mila piante per ettaro.
La produzione vinicola della tenuta sfiora le 400mila bottiglie. Per la gran parte si tratta di Brunello di Montalcino Docg. Il Rosso di Montalcino Doc conta circa 90mila bottiglie, il Brusco dei Barbi Igt circa 100mila. Nelle migliori annate vengono prodotti il Brunello Riserva e la selezione Brunello Vigna del Fiore. Quest’ultimo è frutto delle migliori uve dell’omonimo vigneto, il più a sud di tutta l’azienda e anche uno dei più antichi, un unico appezzamento di circa 6 ettari in cui la vite è coltivata dal Cinquecento. Fattoria dei Barbi è speciale perché è un vero e proprio “villaggio”, animato fin dal 1938 dalla visione di Giovanni Colombini: un luogo in cui la viticoltura convive con la produzione di cereali e olive e l’allevamento di pecore e maiali, dove i prodotti grezzi vengono anche trasformati e venduti direttamente al pubblico, mentre i materiali di scarto vengono riutilizzati.
Un’idea di economia circolare che anticipa di 60 anni le tendenze contemporanee. Autore di diversi testi sull’evoluzione del territorio e della sua cultura, nel 2020 Colombini ha pubblicato un libro dal titolo Brunello, ritratti a memoria, che raccoglie fatti, vicende e personaggi del Brunello. Non a caso, afferma: «I nostri ragazzi non devono studiare da tecnici. I tecnici li possiamo pagare. Serve invece una cultura umanistica solida. Basti pensare all’esempio di Gaja e Antinori». Eccolo qui Stefano Cinelli Colombini, uomo ricco di memoria e di cultura, profondo ed elegante come un calice del suo Brunello.
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