Dopo l’eutanasia del Terzo polo, moriremo tutti di bipopulismo? È probabile, visto l’andazzo della diciannovesima legislatura. Una specie di teatro dell’assurdo, con i suoi testi privi di senso, scarni e ripetitivi, interpretati da personaggi spesso insignificanti. Ma quel potenziale dieci per cento di elettori liberaldemocratici, oggi smarrito e depresso, può trovare domani o, più realisticamente, dopodomani una casa più accogliente senza rifluire fatalmente nell’astensionismo o rifugiarsi in qualche pensionato caritatevole? Può trovarla se entrano in campo nuovi leader disponibili a ragionare sul futuro facendo un bilancio del passato.

Un passato in cui troppo timida è stata la denuncia di quella che è una vera e propria gabbia d’acciaio per le forze riformiste, ossia una legge elettorale scriteriata che ha incentivato la ricerca di alleanze spurie cementate da programmi contradditori. Infatti, il trentennio del “maggioritario all’italiana” ha rappresentato, nelle sue variegate versioni “bastarde”, un esempio da manuale di eterogenesi dei fini. Non ha stabilizzato il quadro politico, che ha subito molteplici e repentini rovesci. Ha ulteriormente parcellizzato la rappresentanza. Ha tribalizzato la competizione tra partiti e schieramenti. Ha favorito comportamenti trasformistici e la formazione di maggioranze composite e trasversali, diverse da quelle dichiarate agli elettori.

Il cervellotico meccanismo delle coalizioni pre-elettorali

Nell’arco di tre decenni il paese è stato così sottoposto a una torsione senza precedenti nel panorama delle democrazie occidentali: una serie di riforme elettorali, in due casi (Porcellum e Rosatellum) concepite anzitutto per tagliare le unghie, rispettivamente, al centrosinistra e ai Cinquestelle; e, più in generale, tese a creare dall’alto un modello bipolare, senza peraltro avere il coraggio di imporlo fino in fondo, ma costruendo un cervellotico meccanismo delle coalizioni pre-elettorali. La transizione iniziata con il referendum sulla preferenza unica (1991), insomma, non si è mai conclusa. La battaglia contro le degenerazioni del parlamentarismo si è caricata così di un significato palingenetico e persino morale, in virtù di una analisi che attribuiva al proporzionalismo la responsabilità della partitocrazia, fonte di ogni corruzione, clientelismo e arretratezza, nonché dell’insostenibile debito pubblico.

Il movimento d’opinione giustizialista

Da qui il successo di un movimento d’opinione giustizialista che individuava nei referendum elettorali la leva decisiva con cui passare dalla “democrazia dei partiti” alla “democrazia decidente”, garantita appunto dal maggioritario e da un bipolarismo di coalizione. Un cambiamento equiparato a un cambiamento costituzionale, non per niente raccontato ancora adesso, secondo l’uso francese, come il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Il risultato è stato che ogni banale crisi di governo si è trasformata in una crisi di sistema.
Per altro verso, le forze riformiste non sono riuscite a contrastare con la necessaria determinazione la narrazione dolente di un paese quasi sull’orlo dell’indigenza. Nei discorsi della sinistra politica e sindacale, infatti, abbondano le condanne del crescente divario tra chi ha e chi non ha, ma scarseggiano le proposte per ridurre il divario forse più iniquo e regressivo di tutti, cioè quello tra chi sa e chi non sa. Eppure quest’ultimo, in fondo, è alla radice delle stesse diseguaglianze sociali.

Queste ultime non riguardano solo chi ha un basso salario, un impiego precario, è escluso o staziona ai margini della “città del lavoro”, ma chiamano in causa l’assetto complessivo del nostro welfare. Basti pensare all’incapacità, anche nelle sue versioni più assistenziali (governo Conte II), di estirpare le forme più dure e mortificanti di povertà come le stesse radici maschiliste dell’apparato dei diritti di cittadinanza.  L’esperienza storica del welfare, in altri termini, dimostra che libertà e giustizia distributiva possono entrare in conflitto tra loro. Perché le protezioni sociali dipendono, in una misura che non ha confronto con i diritti civili e politici, dalle risorse create dal mercato. Libertà e giustizia, quindi: due parole antiche a cui dare contenuti nuovi nell’era dell’intelligenza artificiale.