L'intervento
Morte del detenuto a Santa Maria è ennesimo segnale che è necessario intervento contro sovraffollamento
La recente morte di Renato Russo, detenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, è l’ennesimo macabro segnale della necessità, oggi più che mai, di un non più procrastinabile intervento per diminuire il sovraffollamento negli istituti di pena. Non ci interessa addossare la colpa a qualcuno. Il “pianeta carcere” è da sempre in affanno e, se responsabilità ci sono, esse sono da ravvisarsi nell’indifferenza di Governo e Parlamento. Altre sono le responsabilità di coloro che, pur rivestendo ruoli d’interlocuzione politica, tacciono e non protestano ma intervengono solo con modalità corporative. Il disinteresse della politica è testimoniato anche dall’aver del tutto dimenticato detenuti e personale dell’amministrazione penitenziaria nello stabilire le priorità per i vaccini. Ultima prova ne è l’intervista rilasciata a Repubblica pochi giorni fa da Andrea Giorgis, ordinario di Diritto costituzionale e sottosegretario alla Giustizia.
Nel leggere l’articolo avremmo voluto porre noi alcuni quesiti, in quanto le risposte sono state generiche e prive di quella visione reale della drammatica situazione detentiva nel nostro Paese. «Credo che occorra partire dai criteri che hanno orientato il piano vaccinale nazionale, senza trascurare le specifiche condizioni di vita e la necessità di evitare focolai in contesti di comunità nei quali risulti difficile predisporre le misure di prevenzione, ferma la possibilità di rimodulare e adattare le strategie qualora emergano situazioni critiche», ha detto Giorgis. Il sottosegretario, evidentemente, non ha compreso che l’oggetto della domanda erano i detenuti e non gli iscritti a un circolo di burraco o di vela, nel qual caso la risposta ovvia sarebbe stata proprio quella data da lui. Dalla infelice dichiarazione sarebbero dovute derivare una serie di domande che, purtroppo, non sono state poste e che, ad avviso di chi scrive, avrebbero chiarito al lettore le ragioni per cui, sullo stesso quotidiano, il giorno precedente, la senatrice Liliana Segre e il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma avevano firmato l’appello per dare priorità al vaccino anche alle persone ristrette. Stessa richiesta avanzata dall’Unione Camere Penali Italiane (Ucpi) con il documento dell’11 dicembre scorso, nel quale si chiedeva al ministro della Giustizia e al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, di predisporre immediatamente il piano operativo per la vaccinazione dei detenuti e di tutti coloro che lavorano negli istituti di pena: oltre 100mila persone che vanno immediatamente protette perché quotidianamente a rischio personale e perché potenziali diffusori del virus. Per le stesse ragioni la Camera ha recentemente approvato un ordine del giorno, su iniziativa di Riccardo Magi, che ha impegnato il Governo a prendere in considerazione tale priorità.
Eppure la risposta del sottosegretario alla Giustizia non sembra andare in questa direzione. Ecco perché, nell’intervista, sarebbe stato opportuno chiarire una serie di circostanze attraverso le seguenti domande: «Non crede che, proprio nel rispetto dei criteri che hanno orientato il piano vaccinale nazionale, dopo la precedenza ai lavoratori del settore sanitario, agli anziani che risiedono nelle strutture assistenziali e agli operatori di queste ultime, vadano presi in considerazione i detenuti che, da un punto di vista sanitario, erano vulnerabili già prima dell’arrivo del Covid?» E poi: «Non crede che tale priorità debba essere estesa a tutti coloro che entrano ed escono dal carcere, per ragioni di lavoro e, pertanto, sono potenziali portatori del virus?» Ancora: «Nel dichiarare che non vanno trascurate “le specifiche condizioni di vita e la necessità di evitare focolai in contesti di comunità nei quali risulti difficile predisporre le misure di prevenzione”, come fa a non pensare proprio agli istituti di pena che corrispondono proprio alle caratteristiche da lei indicate?» Non solo: «La possibilità di “rimodulare e adattare le strategie qualora emergano situazioni critiche” da lei indicata, come pensa possa essere attuata nell’immediatezza nelle carceri, laddove, allo stato, vige un’assoluta confusione sul numero dei vaccini distribuiti nelle varie Regioni e sulla quantità di vaccini effettivamente iniettati?» E infine: «La sua risposta non è in contrasto con l’ordine del giorno approvato alla Camera che prevede un impegno concreto del Governo, per dare priorità ai vaccini negli istituti di pena? Non crede che la Costituzione debba garantire il diritto alla salute a tutti e, in primo luogo, a persone affidate allo Stato quali sono i detenuti?».
Le risposte non possiamo immaginarle, ma possiamo senz’altro affermare che, nonostante l’allarme lanciato da tutti coloro che si occupano di esecuzione penale, manca un piano dei vaccini in carcere e non sembra che qualcuno del Ministero della Giustizia o del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria se ne stia occupando. Saremmo lieti di essere smentiti e, magari, di avere risposte alle nostre domande.
P.s.: mentre scrivevamo è giunta la richiesta della giornalista di Repubblica, autrice dell’intervista, che chiedeva poche battute sulle dichiarazioni rese dal sottosegretario Giorgis. Eccole: Sorprende che si possa pensare che dentro le carceri valgano le stesse regole per regolamentare le priorità nell’esecuzione dei vaccini che si sono stabilite per la popolazione libera. Ancor di più se chi lo ha dichiarato ha responsabilità politiche. Si sottovaluta la cronica emergenza che vivono gli istituti penitenziari, il sovraffollamento, le carenze sanitarie e igieniche. L’obbligo di vivere gli uni accanto agli altri, detenuti, agenti di polizia penitenziaria, amministrativi, educatori, medici, volontari. L’esigenza non più differibile di riprendere i colloqui in presenza con i familiari, con i difensori. Un mondo intero che ancora una volta viene ignorato, che non è chiuso in se stesso, ma ha continui contatti con l’esterno. Si tratta di oltre 100mila persone che vanno immediatamente protette.
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