Giustizia
Morte Giulio Regeni, nessun imputato alla sbarra. La polemica politico-giudiziaria sull’Egitto, “Paese sicuro”
I media ci informano costantemente sullo svolgimento del processo a carico dei presunti assassini del ricercatore italiano Giulio Regeni. Al di là della profonda commozione che la vicenda suscita, resta il timore che la sentenza – specialmente in caso di condanna – sia inutiliter data. Occorre infatti ricordare che tutto nasce dalla mancata assistenza dello Stato egiziano all’Autorità giudiziaria italiana. A rendere praticabile l’attuale dibattimento è stata la Corte Costituzionale, con una pronuncia additiva (del 26 ottobre 2023 n. 192) che ha ampliato la perseguibilità in assenza. Il Gip del Tribunale romano – dopo essersi reso conto che il giudizio non si sarebbe veicolato negli ordinari binari – ha sottoposto alla Corte Costituzionale l’articolo del codice di procedura penale (CPP) che impone la conoscenza per l’imputato dell’instaurazione di un processo che lo riguarda, tipizzando la possibilità di procedere ugualmente in sua assenza.
L’immunità extra ordinem
La Consulta ha esteso la processabilità in assenza, riconoscendo l’incidenza della violazione di diritti fondamentali della persona, calpestati dalle reiterate torture a cui la vittima è stata sottoposta. Per la Corte, in favore dei quattro funzionari egiziani imputati, si sono determinate obiettivamente le condizioni di una fattuale immunità extra ordinem, incompatibile con il diritto all’accertamento processuale. Nella specie, le autorità egiziane hanno negato il rilascio degli indirizzi dei funzionari dove notificare gli atti propulsivi del processo penale in Italia. Da qui la declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, del CPP, nella parte in cui non prevede che il giudice proceda in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura quando – a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato – sia impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, “fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa”.
L’anomala impunità
Argomentando nel solco della Consulta, si finisce per far gravare su un imputato una responsabilità da addossare a uno Stato. Con una valutazione non togata è facile affermare che gli imputati siano stati ben contenti di questa anomala impunità fornita, ma sul piano probatorio il giudice – in assenza di precisi riscontri – non può escludere che l’autorità straniera non li abbia per nulla interpellati. Inoltre da un lato si deroga alle forme ordinarie e rituali; dall’altro non si nega il diritto a un “nuovo processo”, prestando così il fianco a una stigmatizzabile precarietà del ragionamento svolto che – nella plausibilità del rinnovo – sottende in tesi che quello celebrato non sia un processo regolare.
Il cardine della ricerca dialettica
Nella drammatica realtà della vicenda è peraltro difficile ipotizzare che un imputato assente – mosso da ravvedimento operoso – possa liberamente decidere di partecipare a un nuovo processo, osteggiato dallo Stato di appartenenza. Con retorica necessaria, la Corte afferma che “il diritto all’accertamento giudiziale è il volto processuale del dovere di salvaguardia della dignità” della vittima. Ma in una società civile, ad elevato grado di sensibilità giuridica, l’accertamento giudiziale deve rispettare in maniera sacra le forme per non danneggiare la dignità di qualsivoglia soggetto processuale. Il contraddittorio è davvero il cardine della ricerca dialettica della verità processuale, condotta dal giudice con la collaborazione delle parti, con l’obiettivo di pronunciare una decisione che sia il più possibile “giusta”. Fatte queste premesse, se la collaborazione non vi è stata ab origine è difficile ritenere che si avrà sulla base di un’eventuale condanna, inscritta in un processo così eccezionalmente legittimato.
Cortocircuito finale
Cortocircuito finale. L’applicazione di un decreto interministeriale che definiva l’Egitto non completamente sicuro per alcune categorie di persone (dissidenti e simili) innesca una polemica politico-giudiziaria; il governo corre ai ripari e dichiara per decreto legge l’Egitto sicuro tout court (D.L. 158/2024). In contemporanea, davanti alla Corte di Assise di Roma, si sta svolgendo un dibattimento che ha come presupposto fattuale l’utilizzo ordinario della tortura da parte dello Stato egiziano.
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