Le piccole e le medie imprese sono il cuore pulsante dell’economia del Paese. «Piccolo è bello». Il tessuto industriale dell’Italia poggia su questi preziosi imprenditori che puntellano la penisola con una miriade di aziende. Questo nessuno lo discute. Ma quelle medie e piccole imprese sono anche la tomba di centinaia di operai, manovali, addetti alle presse, muratori che ogni anno riempiono tragicamente il conteggio delle morti bianche. Si è superata la soglia dei 1.000 morti nel 2021 e una rapida ricognizione della gran parte di quelle tragedie rivela un dato tanto evidente, quanto sottaciuto. In Italia si muore prevalentemente, se non esclusivamente. nella selva di quelle innumerevoli imprese di modeste dimensioni ove regole, precauzioni e tutele troppe volte sono un miraggio.

In tante occasioni a morire sono anche i titolari di quelle imprese, i “padroncini” come si diceva una volta che, spalla a spalla con i propri dipendenti, corrono i medesimi pericoli e, non raramente, con loro non ripercorrono la via verso casa a fine giornata. Sia chiaro, le responsabilità devono essere ripartite con una certa ragionevolezza. Il sistema produttivo italiano, e non solo, prevede un ricorso massiccio al subappalto, alla esternalizzazione dei compiti più rischiosi e proibitivi: quanti operai delle società di manutenzione siano morti negli altiforni, sui ponteggi di riparazione, sotto i macchinari di pulizia dei grandi plessi industriali è cosa fin troppo nota. Le grandi imprese scaricano sulle piccole e medie, spesso a costi iniqui, attività insieme alle quali trasferiscono anche il rischio di morti e di incidenti sul lavoro. Non che questo basti – lo si dice agli esperti – per andare esenti da responsabilità penali o civili, ma è chiaro che la frammentazione del rischio in un pulviscolo di imprese marginalizza i costi e massimizza i profitti.

Le piccole e medie imprese, come detto, non sempre rispettano gli standard quanto a salari, orario di lavoro e, appunto, sicurezza e questo genera risparmi nella filiera produttiva di cui le morti bianche e gli infortuni rappresentano solo la sorta di punta di un iceberg molto più grande, immerso in acque torbide e limacciose.
Il primo punto, quindi, è intervenire in modo selettivo su questo settore del subappalto privato per costringere le imprese “madri” a pretendere – e a controllare – il rispetto dei protocolli di sicurezza e, più in generale, di dignità dei lavoratori. Certo la grande industria, in proporzione, gestisce impianti sicuri, in cui i rischi di infortunio sono pure alti, ma tra le cui mura efficaci meccanismi di controllo interno garantiscono la vita e l’integrità fisica degli operai. Vi sono grandi gruppi industriali del Paese, soprattutto nell’agroalimentare e nella meccanica, che hanno statistiche di sinistrosità bassissime, anzi in qualche caso prossime allo zero. A dimostrazione che le dimensioni dell’azienda incidono direttamente sulla sicurezza dei lavoratori per effetto di un migliore equilibrio tra costi e benefici e in ragione di uno standing reputazionale che deve essere comunque mantenuto molto alto.

Il secondo punto concerne le lavorazioni eseguite direttamente dalle piccole e medie imprese (vedi il caso della tragedia di Torino) le quali agiscono sulla scorta di una committenza privata che vuole, parimenti, strappare le migliori condizioni di prezzo senza rendersi conto che in questa perenne gara al ribasso a essere messa in discussione è proprio la sicurezza dei lavoratori. È un punto particolarmente delicato poiché coinvolge direttamente la responsabilità di tanti cittadini che da padroni di appartamenti o di piccoli fondi agricoli, da condomini o da utenti di servizi, favoriscono le imprese che tagliano i prezzi e assicurano il maggiore risparmio. Non curandosi del modo con cui l’azienda lavora, ignorando i muratori senza casco sui ponteggi, gli operai senza protezione che puliscono gli androni e le scale dei propri palazzi e così via in un lungo corteo di lavoratori che tutti abbiamo, o dovremmo avere, sotto gli occhi ogni giorno.

Si è letta di recente l’incitazione di qualche ex magistrato a svolgere indagini “preventive”, a dislocare le forze di polizia o l’Inail o l’Ispettorato del lavoro in ogni plesso a controllare, il tutto nella solita vocazione allo stato d’assedio. Quasi non bastassero i tanti controlli e la pletora di adempimenti che già asfissiano la vita delle imprese italiane. Non è militarizzando l’economia del Paese che potranno essere ottenuti risultati apprezzabili su questo impervio e crudele fronte di guerra. Una soluzione potrebbe essere data dalla proposta dei sindacati di istituire per tutte le imprese, di qualunque dimensione, la cd. pagella a punti che giunga a sospendere l’operatività dell’azienda in presenza di infortuni gravi o reiterati.

Più dei processi penali, lunghi, estenuanti e dagli esiti incerti, la bonifica delle imprese italiane sul versante della sicurezza sul lavoro corre lungo la strada di appropriate interdizioni in modo da allontanare dal mercato – per sempre o per un tempo ragionevole – coloro che hanno visto i propri lavoratori cadere in azienda per mano dell’insicurezza e della violazione delle regole di cautela. Si potrebbe obiettare che questa è una misura che, con la chiusura anche temporanea dell’azienda, metterebbe in pericolo l’occupazione degli altri, dei sopravvissuti. È vero, ma nulla impedisce che la previdenza pubblica si faccia carico di questi lavoratori e assicuri loro un reddito in attesa di un ricollocamento occupazionale, tanto per dirne una. Certo è che non si può inneggiare al “piccolo tanto bello” la mattina e non seguirne la scia di sangue a fine giornata.