Un altro giorno di inferno in Libia
Morti, feriti e famiglie divise: continua il pogrom di Tripoli
In Libia ieri è stato un altro giorno di disperazione e intanto dall’Italia e dall’Europa non si leva nemmeno un sussulto di indignazione. Del resto prendersela con il sicario che sta facendo il gioco sporco (un pogrom ben accetto dalla comunità internazionale contro i richiedenti asilo) sarebbe fastidioso e inopportuno. Mentre il ministero libico continua la sua ingente opera di rastrellamento nel Paese in nome di una non meglio precisata “operazione contro i criminali e i trafficanti di droga” (senza nemmeno preoccuparsi di sventolare un narcotrafficante che sia uno) molte persone si sono accampate all’esterno della sede dell’Unhcr di Tripoli (l’agenzia delle Nazioni Unite specializzata nella gestione dei rifugiati che fornisce loro protezione internazionale ed assistenza materiale) in cerca di aiuto.
Testimonianze sul posto parlano di circa 800 persone accampate all’esterno dell’ingresso dell’agenzia da giorni, spogliate di qualsiasi cosa e affamate. Sono le stesse persone che nei giorni scorsi sono state cacciate dalle proprie abitazioni dai padroni di casa che si sono appropriati dei loro mobili e dei loro averi lasciati durante la fuga per sfuggire ai controlli di polizia. «Ho addosso i vestiti che indossavo giovedì scorso. – racconta uno dei ragazzi in attesa sul marciapiede a Francesca Napoli, avvocata esperta in diritto dell’immigrazione – Ho lasciato tutti i miei vestiti nella mia stanza. Molte auto dei rifugiati sono state saccheggiate dalla polizia insieme ai soldi e ai telefoni». L’unica speranza per loro è essere registrati quanto prima dall’Unhcr per poter risultare come richiedenti asilo e ottenere protezione.
Nella giornata di ieri si sono sollevate alcune tensioni tra le persone in attesa. In diversi presenti sul posto raccontano di non avere ricevuto cibo per giorni (solo lunedì l’Unhcr aveva distribuito delle merendine ai più fragili e alle famiglie) e in molti hanno protestato. Nel pomeriggio di ieri alcuni funzionari dell’Onu hanno distribuito tonno, fagioli e biscotti per fare fronte all’emergenza. Le immagini mostrano una fiumana di persone per strada che dipendono da un pezzo di carta. Ma qui nell’inferno libico anche i documenti sembrano contare poco: sembra che nel centro di detenzione di Al-Mabani ci siano 66 persone richiedenti asilo che non sono state registrate dall’Unhcr e che quindi rischiano di essere rimpatriati senza poter fare valere i proprio diritti. Dal canto suo intanto il governo libico sta costruendo un database dei migranti: «sulla base delle direttive del Capo dell’Autorità Anti-Immigrazione Illegale, il Dipartimento Informazione e Documentazione dell’Agenzia procede all’inventario e alla registrazione degli immigrati irregolari, per creare una banca dati degli immigrati clandestini che include tutti i loro record in preparazione all’avvio delle procedure di espulsione», recita una nota del ministero dell’Interno.
Sempre ieri diversi migranti (qualcuno dice addirittura 2.000) sarebbero scappati dal centro di Garian per raggiungere Tripoli e la polizia ha aperto il fuoco. In 4 (2 sudanesi, un somalo e un nigeriano) sarebbero rimasti uccisi. Medici Senza Frontiere (che fornisce cure mediche in tre centri della capitale libica) denuncia che il numero di migranti e rifugiati trattenuti nei centri di detenzione a Tripoli è drammaticamente più che triplicato negli ultimi cinque giorni. «Stiamo vedendo le forze di sicurezza adottare misure estreme per detenere arbitrariamente più persone vulnerabili all’interno di strutture gravemente sovraffollate e dalle condizioni disumane» afferma Ellen van der Velden, responsabile delle operazioni di MSF in Libia. «Intere famiglie che vivono a Tripoli sono state fermate, ammanettate e trasportate in diversi centri di detenzione. C’è chi è stato ferito e chi persino ha perso la vita, mentre diverse famiglie sono state divise e le loro case ridotte in cumuli di macerie».
L’insicurezza causata dai raid non ha permesso a MSF di operare con le cliniche mobili che settimanalmente offrono cure mediche ai migranti e rifugiati vulnerabili in città. I raid hanno anche avuto un impatto sulla capacità delle persone di muoversi liberamente e cercare assistenza medica, anche perché chi è sfuggito all’arresto ha paura di uscire di casa. Negli ultimi due giorni, le équipe di MSF sono riuscite a visitare due centri di detenzione dove sono trattenute le persone arrestate nei recenti raid: Shara Zawiya e Al-Mabani (Ghout Sha’al). Nel centro di detenzione di Shara Zawiya, che normalmente trattiene 200-250 persone, i team di MSF ne hanno viste più di 550, tra cui donne in gravidanza e bambini appena nati rinchiusi nelle celle. Circa 120 persone erano costrette a dividersi lo stesso bagno, fuori dalle loro celle c’erano secchi pieni di urina. Al momento della distribuzione dei pasti, è scoppiata una grande agitazione, le donne hanno protestato contro le condizioni in cui sono trattenute all’interno del centro. Nel centro di detenzione di Al-Mabani, i team di MSF hanno visto le celle così sovraffollate che le persone all’interno erano costrette a stare in piedi. Centinaia di donne e bambini sono trattenuti all’aperto, senza zone d’ombra o ripari.
Un membro del team di MSF ha raccolto la testimonianza di alcuni uomini che hanno detto di non mangiare da tre giorni, mentre diverse donne hanno raccontato di ricevere al giorno un unico pasto composto da un pezzo di pane e formaggio. Molti uomini erano in stato di incoscienza e in necessità di ricevere cure mediche urgenti. «Ora più che mai, migranti e rifugiati vivono in una situazione di pericolo e sono intrappolati in Libia senza alternative per fuggire, dato che per la seconda volta quest’anno i voli umanitari sono stati sospesi senza motivo», afferma Van der Velden di MSF.
Intanto la delegazione della Mezzaluna Rossa libica dà notizie di 17 corpi di migranti che cercavano di raggiungere l’Europa sono stati rinvenuti sulle coste della Libia occidentale. Per un altro giorno l’inferno ha svolto la sua missione: governare l’orrore. La fabbrica della tortura libica è in piena produzione. I ministri italiani non hanno il tempo di spendere nemmeno una parola, loro così sempre prodighi di tweet. L’Europa promette che fisserà un incontro per decidere di occuparsene.
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