Il disastro del superbonus, la traiettoria crescente di debito e deficit e la linea quasi piatta della crescita economica ci avevano convinto che il governo volesse intraprendere la via lunga e tortuosa del rigore. Ma l’illusione è durata poco, spinta via dalle esigenze propagandistiche delle imminenti elezioni e della ricorrenza del Primo Maggio. E così, morto un bonus se ne fa subito un altro.

Questa volta si tratta di un incentivo alle assunzioni che premia gli incrementi nel numero di lavoratori a tempo indeterminato con un surplus di deduzione dal reddito d’impresa. Il risparmio è ben più contenuto rispetto alle elargizioni degli ultimi anni ma impone una riflessione sul riflesso pavloviano della spesa come unico mezzo di acquisizione del consenso. La misura in sé non è il peggior schema di spesa pubblica possibile e questi interventi hanno avuto esiti positivi in alcune parti del mondo.

L’incentivo ha poco senso però se dato indiscriminatamente in tutte le regioni, a prescindere dalle condizioni economiche a cui sono soggette le imprese, e di fatto mette a carico della collettività costi che gli imprenditori avrebbero comunque sostenuto in un momento in cui l’occupazione non sembra in crisi.

Non c’è un problema di disponibilità di lavoro ma più un tema di competenze adeguate che non può essere risolto con un sussidio indiscriminato. Paghiamo le imprese per fare quello che avrebbero comunque fatto, anche in assenza di incentivo. Il tema investe quindi la responsabilità di imprese e imprenditori e il loro rapporto con lo Stato. Da troppo tempo l’imprenditoria italiana si è abituata a mance e mancette e programma i propri investimenti solo in ragione della prossima misura di spesa pubblica.

Da Industria 4.0, passando per il Credito Sud e le misure di decontribuzione, non c’è impresa che non sia esperta nel capire come addossare alla collettività costi e rischi che dovrebbe assumere in proprio. Diceva Milton Friedman che nessuno spende il denaro altrui con la stessa attenzione con cui spende il proprio. È ora che il governo smetta di agire da bancomat e le imprese tornino a investire capitali di rischio mettendo fi ne al tempo, ormai troppo lungo, delle mance di Stato.

Carlo Amenta

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