L'ultimo giorno del Festival
Venezia, la Mostra in attesa dei premi, contesi tra cinema sensazionalistico e umanitario
Tra i favoriti spiccano Bresson, Fincher, Hamaguchi e Holland: le previsioni sul Leone d’Oro, i 2 Leoni d’Argento e il Premio Speciale della Giuria

La 80ª Mostra del Cinema di Venezia è all’epilogo. È stata un’edizione del Festival variegata, con una pluralità di temi e di approcci, e caratterizzata da una selezione ufficiale in cui si nota l’intreccio tra cinema d’autore, con ovvie peculiarità personali, e cinema di genere con stilemi qualitativamente interessanti.
Nella serata di oggi, sabato, la Giuria di “Venezia 80. Concorso”, la sezione ufficiale competitiva, assegnerà i Leoni e i premi principali. È presieduta dal trentenne americano Damien Chazelle, premio Oscar per la miglior regia nel 2017 per “La La Land”, e comprende i registi Jane Campion (Australia), Mia Hansen – Love (Francia), Laura Poitras (USA), Gabriele Mainetti (Italia), Martin McDonagh (Irlanda) e Santiago Mitre (Argentina), autori le cui poetiche e stili sono molto diversi, e i noti attori Saleh Bakri (palestinese con cittadinanza di Israele) e Shu Qi (Taiwan).
Quest’anno, proprio a causa della eterogeneità sia dei film in concorso che della composizione della Giuria, è particolarmente difficile avanzare previsioni su quale film vincerà il Leone d’Oro e quali altri otterranno i 2 Leoni d’Argento e gli altri Premi riservati ad altre 2 opere preferite dalla Giuria e alle migliori regia, sceneggiatura, interpreti maschile e femminile e attore o attrice emergente. Tra l’altro manca ancora, per noi, la sistematizzazione delle recensioni di almeno 3 film di registi di talento, presentati venerdì 8 settembre: “Hors – saison”, del francese Stephane Brize’; “Memory”, del messicano Michel Franco, già premiato alla Mostra di Venezia e al Festival di Cannes; “Kobieta z… (Woman of)”, della polacca Malgorzata Szumowska.
Abbiamo già scritto della nostra preferenza, tra i film in concorso, per “Dogman”, di Luc Besson e per “The Killer”, di David Fincher”. Ai suddetti aggiungiamo ora come nostri preferiti altri due film: “Azu wa sonzai shinai (Evil Does Not Exist), che conferma il giapponese Ryusuke Hamaguchi, come uno dei grandi registi contemporanei a livello mondiale; “Zielona granica (Green Border)”, opera molto attuale e di valore, pur con alcuni limiti, realizzata dalla veterana polacca Agnieszka Holland.
“Evil Does Not Exist”, di Ryusuke Hamaguchi, merita una digressione critica. È un’opera elegiaca, dedicata al rapporto tra uomo e natura e aliena da qualsiasi retorica didascalica di stampo ecologista militante. In un villaggio agreste gli abitanti vivono in equilibrio con l’ambiente, godendo delle risorse naturali per la loro sussistenza e rispettando la fauna. E si trovano a doversi confrontare con due incaricati di un’impresa di Tokyo che vorrebbero convincerli ad accettare il progetto di un camping di lusso per turisti danarosi. Hamaguchi, premio Oscar per il miglior film straniero nel 2022 per “Drive My Car” e autore di un cinema emozionante perché straordinariamente raffinato nel raccontare le relazioni interpersonali e i dilemmi morali, realizza un’opera molto libera da vincoli preordinati. Ha dichiarato che il film rappresenta l’evoluzione di un progetto filmato di una esibizione della musicista Eiko Ishibashi, una sua abituale collaboratrice. Si affida a un mirabile flusso di suggestive immagini della foresta, accompagnate da rumori naturali, pause e silenzi, accoppiando piani sequenza e inquadrature ravvicinate dei volti e dei corpi dei protagonisti. I dialoghi minimali mettono a fuoco le consuetudini, i timori e le ragioni degli abitanti del villaggio di fronte ai goffi tentativi di lusingarli attuati dagli due emissari provenienti da Tokyo.
Per quanto riguarda i ben 5 film italiani in competizione, dobbiamo affermare che “Comandante“, di Edoardo De Angelis resta l’unico che presenta un impianto, un’ambientazione e una tensione narrativa convincenti, diverse scelte di messa in scena, aspetti estetici e valori interpretativi rimarchevoli e che ci ha riservato alcune vere emozioni.
Volendo comunque azzardare una previsione rispetto ai riconoscimenti principali, il Leone d’Oro, i 2 Leoni d’Argento e il Premio Speciale della Giuria, pensiamo che sia possibile che prevalga un doppio orientamento della Giuria. Da un lato la tendenza a privilegiare un paio di opere concepite e costruite apposta per ammaliare il pubblico e, purtroppo, anche diversi critici, tra eccessi e provocazioni narrative. Ma che rivelano non poche debolezze nella caratterizzazione della storia e dei personaggi. Si tratta dei seguenti film. “Poor Things”, del greco Yorgos Lanthimos: una commedia sarcastica, con deriva horror e pacchiane suggestioni femministe, ambientata a Londra alla fine del XIX secolo. La protagonista è Bella (Emma Stone), una trentenne riportata in vita dopo un suicidio, per annegamento nel Tamigi, da parte del Prof.Godwin Baxter (Willem Dafoe), un esimio medico, epigono di Frankenstein, che fa esperimenti di ibridazione tra corpi e cervelli di esseri umani e anche con gli animali. Un’opera che conferma l’opzione di Lanthimos per un cinema grottesco, ipersensazionalista, ricattatorio e falsamente originale, corredato da trucchi estetici con inquadrature con uso del grandangolo, immagini fish-eye e ampio uso di steady cam e dello zoom.
“Maestro”, dell’americano Bradley Cooper, è un biopic dedicato al grande compositore e direttore d’orchestra Leonard Bernstein (lo stesso Cooper), rievocato nella sua relazione con la moglie, l’attrice Felicia Montealegre Cohn (Carey Mulligan). Racconta le contraddizioni del geniale musicista iperattivo, narcisista e bisessuale, diviso tra la gloria a Carnegie Hall e la fama a Broadway, spinto dalla euforia creativa e condizionato da inveterate manie e dalla ciclotimia dell’umore. E descrive anche la devozionevsacrificale della moglie che cerca invano di non essere manipolata. Ma Cooper sceglie la strada della frenesia narrativa che distorce i due personaggi e riduce il confronto dialettico e affettivo tra loro a pochi intermezzi deludenti all’interno di una debordante apologia delle performances musicali di Bernstein In subordine, potrebbe essere anche
molto considerato dalla Giuria “El conde”, del cileno, Pablo Larrain. È una pochade fantasmagorica con caratterizzazione horror in forma grottesca. Un’opera che propone anche una sottintesa e confusa denuncia politica: pseudo provocatoria, contorta, prolissa e noiosa. Mette a fuoco il gigantesco latrocinio e la bassezza morale del dittatore Pinochet e della sua famiglia, immaginando il generale fascista come un vampiro che si è reincarnato varie volte nel corso di 250 anni. In una cavalcata che parte dalla Rivoluzione Francese fino al golpe militare in Cile del 1973 e poi persino dopo la sua morte nel 2006. La vampiressa Margaret Thatcher, burattinaia e protettrice di Pinochet, tirerebbe le fila della vicenda. Fino a un epilogo paradossale.
Dall’altro lato sembra scontato che la Giuria non possa ignorare i film che riguardano un tema di tragica attualità nella contingenza politica e sociale: il dramma dei migranti clandestini nel Mediterraneo e lungo l’itinerario terrestre in Europa orientale. Uomini, donne, adolescenti e bambini che dal 2014 e tuttora, provenendo da Asia e Africa, cercano di raggiungere i Paesi della Unione Europea attraverso una odissea di terribili sofferenze e di gravissimi traumi, spesso conclusa con la morte durante il viaggio, essendo alla mercé di bande di criminali e di mercanti di esseri umani e del cinismo di alcuni governi. Peraltro sarebbe ben diverso se la Giuria premiasse uno o l’altro dei due film dedicati a questo tema. “Green Border”, di Agnieszka Holland, racconta l’assurda e terribile vicenda dei migranti al confine tra Bielorussia e Polonia, seviziati dagli apparati di polizia e militari dei due Paesi. Pur con i limiti di un certo bozzettismo e di alcuni stereotipi, propone un contesto e alcuni personaggi che risultano abbastanza convincenti in termini di tensione drammatica, di limpidezza nella descrizione delle contraddizioni e di messa in scena. Tra l’altro risulta assolutamente efficace la scelta di un terso bianco e nero, coadiuvata dalla preziosa fotografia curata da Tomasz Naumiuk.
Viceversa “Io capitano”, di Matteo Garrone, è un film molto deludente perché, al di là delle intenzioni, la messa in scena è fortemente carente. Prevalgono la spettacolarizzazione del paesaggio del deserto del Sahara e la retorica rispetto a tutte le tragiche evenienze che investono i due protagonisti, gli adolescenti senegalesi Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall). Purtroppo i due non sono personaggi veri, ma simulacri degli stessi e archetipi fasulli. In effetti i limiti della sceneggiatura, curata dallo stesso Garrone con Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri, ne condizionano la caratterizzazione. E questo fatto risulta ancora più evidente se si confronta “Io capitano” con altri due film sullo stesso tema, in contesti diversi: “In This World” (2002), del britannico Michael Winterbottom, dedicato a due giovani profughi afghani che raggiungono Londra e “Lamerica” (1994), di Gianni Amelio, dedicato al drammatico esodo degli albanesi verso l’Italia.
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