L'intervista
Mostra di Canova, alle Gallerie d’Italia di Milano alla scoperta del ‘nuovo Fidia’
Nessuno aveva mai messo sistematicamente a confronto l’opera di Antonio Canova (1757-1822) e quella del suo eterno rivale Bertel Thorvaldsen (1770-1844). Lo hanno fatto i curatori Stefano Grandesso e Fernando Mazzocca in una grande, affascinante mostra dal titolo “Canova / Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna”, allestita alle Gallerie d’Italia – Piazza Scala, sede museale di Intesa Sanpaolo a Milano, fino al prossimo 15 marzo. La mostra, realizzata in collaborazione con l’Ermitage di San Pietroburgo e il Thorvaldsens Museum di Copenaghen, si avvale di altri prestatori importanti tra cui il J. Paul Getty Museum di Los Angeles, il Metropolitan di New York, la Gipsoteca Canoviana. «Le Gallerie d’Italia – spiega Michele Coppola, direttore Arte Cultura e Beni Storici di Intesa Sanpaolo – rendono evidente l’impegno e il grande progetto di Intesa Sanpaolo per la valorizzazione dello straordinario patrimonio artistico e culturale di proprietà e del Paese, con una risposta del pubblico e della critica che ha superato ogni previsione. Le iniziative dei nostri musei sono ormai riconosciute come un elemento importante dell’offerta culturale italiana e hanno consentito alla nostra banca di inserirsi, anche nella promozione dell’arte e della cultura, tra i principali protagonisti a livello internazionale.» Tra le 160 opere esposte nelle 17 sezioni troviamo le “Tre Grazie” di Canova accanto alle “Grazie con Cupido” di Thorvaldsen, due loro busti di Napoleone, le loro Ebi, le Veneri; ma anche i lavori di molti pittori e scultori coevi che aiutano a capire il contesto in cui crebbe e si affermò la loro popolarità. Ne parliamo con Fernando Mazzocca, tra i più autorevoli e qualificati studiosi canoviani, già ordinario di Storia della Critica d’Arte alla Statale di Milano. «L’idea di questa mostra – racconta Mazzocca – nasce dai miei studi su Canova e da quelli di Stefano Grandesso su Thorvaldsen. Abbiamo pensato di unire le forze per mettere a confronto questi due grandi artisti che hanno contribuito a cambiare il corso della scultura e si sono misurati sugli stessi temi.»
Che ruolo gioca lo spazio delle Gallerie d’Italia nel progetto della mostra?
Lo spazio delle Gallerie d’Italia ci sembrava particolarmente adatto da un lato perché nella collezione permanente sono conservati i bassorilievi di Canova, dall’altro perché per come è configurato appare un luogo ideale per valorizzare la scultura, una forma d’arte meno nota al pubblico rispetto alla pittura. Le Gallerie d’Italia sono in grado di esaltarsi e insieme esaltare le opere in un gioco reciproco: penso soprattutto al grande spazio centrale, enorme, che le sculture riempiono in modo naturale. Abbiamo creato una sorta di agorà con la possibilità da parte del pubblico di soffermarsi, di sedersi, in modo da vivere queste opere.
Il rapporto tra Canova e Thorvaldsen incarna due diverse visioni dell’Antico.
La rivoluzione tecnica e ideale che porta alla scultura moderna inizia da Canova, il cui retroterra affonda le radici in una grande civiltà figurativa come quella veneziana. Egli si diletta a dipingere poiché considera importante confrontarsi anche con la pittura. Quando da Venezia si reca a Roma – come testimoniato dai “Quaderni di viaggio” – egli visita Bologna, Firenze e molti luoghi d’arte, ha un grande interesse per le opere del passato e gli antichi maestri. E soprattutto vuole misurarsi anche con soggetti che sono stati trattati più in pittura che in scultura, come la Maddalena o la Ebe. Si sente in qualche modo erede di Giambologna o di Michelangelo ma si interessa anche a Tiziano e ai maestri della Scuola Veneta. E inventa una scultura di grande sensualità, lavorata in un modo tale da ricordare, a volte, la pittura, per raggiungere l’effetto della “vera carne”. Secondo lui gli artisti che sono troppo condizionati dalle teorie non producono vere opere d’arte; ciò che più gli interessa sono la sensibilità, il genio, la tecnica. È dunque un po’ polemico verso quel Neoclassicismo teorico di Winckelmann o di quegli eruditi che avevano teorizzato il ritorno e l’imitazione dell’antico. Guarda tanto agli antichi quanto ai moderni.
A quel Neoclassicismo teorico è legato invece Thorvaldsen.
Sì, la sua è un’idea di scultura più astratta. Egli non trasforma il marmo in “vera carne” ma lo lascia marmo, opaco e quasi scabro: la nobiltà di un materiale così eccellente secondo lui non va alterata. Questo diverso modo di procedere si riflette anche nella concezione che i due hanno dell’Antico: per l’italiano Canova – che rende le sue divinità così naturali – il mito dev’essere qualcosa di vissuto, che entra nel quotidiano, come se la storia antica e la mitologia non fossero lontane da noi perché siamo sempre vissuti accanto a esse. Per il nordico Thorvaldsen il mito è un ideale astratto da raggiungere, un oggetto che rimane distante.
La vulgata ha sempre identificato Canova con il bianco accecante, con l’assenza di colore. Sappiamo invece quanto Canova fosse attento a conferire ai suoi marmi varietà e sfumature cromatiche.
Il fatto che Canova sia stato identificato con questo Neoclassicismo un po’ mortuario è dovuto da una parte a un’errata percezione delle sue opere e dall’altra al fatto che molte di esse sono state rovinate da successive puliture e ci sembrano oggi più bianche di quanto non fossero. Canova non voleva che le sue opere apparissero bianche, voleva dare il senso dell’incarnato e quindi le lisciava, le smaterializzava di modo che queste levigature assorbissero la luce e attenuassero il bianco del marmo. Sappiamo addirittura che dava sui marmi delle leggere coloriture, delle cere; e del resto anche le sculture greche erano colorate, non erano così bianche come tramandatoci dalle copie romane. A volte – come nella Ebe – inseriva degli elementi di bronzo dorato in modo da dare alle opere, attraverso il contrasto di materiali, maggiore sentimento pittorico. Thorvaldsen è molto distante da questo modus operandi. Laddove la scultura di Canova si inserisce nello spazio quella di Thorvaldsen si isola, il suo bianco accecante la rende un oggetto divino.
Nelle Grazie di Canova l’erotismo trae la sua forza dall’assenza di aggressività. In Thorvaldsen avviene il contrario: le sue “Grazie con Cupido” appaiono connotate da una sorta di malizia, di compiacimento.
Questo confronto è sicuramente il più suggestivo della mostra perché ci mette dinnanzi a quella diversità di tecniche di cui parlavo ma anche a due modi molto diversi di concepire il nudo e la sensualità. Nelle Grazie di Canova troviamo quella sorta di velo presente anche nelle Grazie del Foscolo: un connotato simbolico, un emblema della bellezza che però serve anche a nascondere le loro parti intime. Le Grazie di Thorvaldsen sono completamente nude, si mostrano con una certa sfrontatezza. Eppure il risultato è che le Grazie di Canova sono di una sensualità estrema, hanno un sottile erotismo che ci coinvolge; in Thorvaldsen quell’assoluta nudità finisce per togliere sensualità, per trasformarsi nell’esibizione di una bellezza più divina che umana.
Nel ritrarre Napoleone Canova abbellisce e corregge le sue fattezze ma allo stesso tempo gli conferisce una prorompente, umanissima virilità. Thorvaldsen lo ritrae postumo, è forse più fedele al suo vero aspetto ma lo carica anche di un pesante simbolismo…
I due ritratti sono molto distanti anche nel tempo. Quello di Canova è stato concepito durante il suo primo incontro con Napoleone, nel 1802, a Parigi. Napoleone, pur essendo solo ancora Primo Console, era ormai potentissimo. Aveva conquistato l’Italia ed era considerato un po’ come l’uomo del destino. Canova certamente lo abbellisce, lo divinizza, tanto che il busto è monumentale, all’eroica. Allo stesso tempo lo rappresenta anche con una certa malinconia. La sua è un’operazione molto sottile: l’eroicizzazione di Napoleone non esclude, infatti, un’osservazione psicologica sull’ambiguità del personaggio, che appariva al Foscolo come il liberatore e il conquistatore. Thorvaldsen è più fedele alle sue sembianze; siamo nel 1830 e l’imperatore è scomparso da diversi anni. Egli viene proiettato nella leggenda come una sorta di Giove; ci troviamo di fronte a una retorica napoleonica più che all’umanità che vedevamo in Canova.
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