L'intervento
Movida, si riparte ma serve più responsabilità e rispetto della comunità
Primi passi nella fase 2, quale Paese ci sta entrando? Ci ritroviamo come eravamo o la clausura ha lasciato segni indelebili? Ricominciamo da dove ci eravamo lasciati oppure siamo cambiati? I segnali che arrivano dalle cronache sono ambigui e in ogni caso non è il caso di mettersi a generalizzare, meglio provare a distinguere e trarne qualche provvisoria riflessione. Fase 2, titolo di per sé enfatico che si colloca subito nel territorio dell’Evento, qualcosa si conclude, la Fase 1, e si entra in una altro tempo, appunto, la Fase 2, tutta nel segno della Riapertura e della Ripartenza. Metto le maiuscole perché sono termini che nel discorso collettivo e mediatico assumono una valenza simbolica.
Scorrendo qua e là, ci sono le famiglie felici di poter tornare a mangiare nel ristorante all’aperto, la nonna che gioisce perché ha riaperto la parrucchiera e può tingersi i capelli per far contenta la nipotina, i commercianti di via Toledo a Napoli che si mettono l’uno accanto all’altro a distanza di sicurezza e fanno il countdown del muovo inizio, le file di migliaia all’ingresso dei supermercati dell’arredamento, il parco archeologico di Paestum che riapre e colpisce la compresenza fra il tempo millenario dei templi e la nostra ansiosa attualità. L’impressione che ci lasciano questi frammenti sparsi è di una quotidianità che riprende, fa un passo al di fuori della clausura, luoghi della ritualità conviviale che tornano ad accogliere, la gente che si muove, caposaldi del patrimonio storico e artistico che tornano ad essere fruibili.
Sarebbe sbagliato pensare sa un quadretto stabile e rassicurante, sono solo poche istantanee e potremmo trovare altre situazioni che vanno in una direzione diversa. Per chi prova a respirare (con mascherina), ci sono tanti in debito di ossigeno economico e psicologico, preoccupati al punto da non essere in condizione di ricominciare l’attività e angosciati dal futuro.
Accade – per citare un luogo di confine – anche in territori meno visibili, ma normalmente frequentati al punto da costituire un frastagliato mercato, spesso e drammaticamente ai confini della legalità, ma anche silente e raccolto nei circuiti esclusivi e nei siti per gli incontri. Parliamo dei sex workers costretti a interrompere le prestazioni e che manifestano un disagio che continua anche in questa Fase, attraverso associazioni e collettivi. Per dire di quanto l’emergenza sia pervasiva e capace di sconfinare anche nelle zone meno in luce dei comportamenti individuali e sociali (perché non esplorare, ad esempio, i modi in cui le organizzazioni criminali hanno affrontato l’epidemia e si sono riorganizzate?). Ma non è questo gioco-puzzle che ci interessa.
Piuttosto, in questa cornice della incipiente Fase 2, emergono dei fatti-segnale, anche questi da non generalizzare, e però con un significato che sarebbe superficiale trascurare. Per esempio, si susseguono gli appelli dei sindaci ai cittadini. Moniti preoccupati a fronte di movide e di assembramenti che se ne infischiano delle mascherine e della distanza sociale. I sindaci hanno il polso del loro territorio e le loro reprimende vengono dall’esperienza diretta, naturalmente ognuno con il suo stile dal garbo di Giorgio Gori primo cittadino di Bergamo al piglio di Leoluca Orlando che minaccia di chiudere alcune zone di Palermo, a cominciare dalla Vucciria affollata e gremita, al colore esagitato di colleghi più ruspanti. Cosa dice questa rampogna accorata? Dice di un deficit ancora alto di responsabilità civile, di una superficialità incentrata su se stessi che non riesce a sentire il valore della convivenza e della comunità come un bene fondato sul rispetto e sulla reciprocità, sulla latitante percezione della distanza che non è solo sociale e fatta di metri, ma è culturale, fra l’etica e l’antropologia. E tra i tanti assembramenti si impone all’attenzione uno a San Severo nel Foggiano.
Qualche centinaio di persone hanno partecipato ai festeggiamenti non autorizzati in onore della patrona, la Madonna del Soccorso. Hanno acceso batterie di mortaretti, come accade in queste circostanze, in una rincorsa generale fra gli scoppi. Ora di queste tradizioni è piena la cultura popolare del Paese. Sono radicate nei secoli e contribuiscono a definire un’identità. Ne fanno parte intrinseca anche gli eccessi, al limite della violenza, che spesso caratterizzano questi riti. Il Paese è pieno di flagellanti e di battenti a sangue. Però, in questo caso diviene evidente lo scarto che corre fra l’adesione a una ritualità arcaica e il rifiuto di una regola che viene dalla laicità universale dello Stato. Il bisogno di partecipare si dimostra più forte di un’epidemia, il sentimento istintivo che si esprime in una ricorrenza viene prima di qualunque razionalità.
Non solo, su Facebook è apparso un video della festa con dedica a un boss di San Severo ucciso due anni fa nella bottega di un barbiere. Non è la prima volta, è capitato di vedere processioni che si fermano, magari deviando dal corso stabilito, davanti all’abitazione di un capomafia o del padrino del paese detenuto, per omaggiarlo con un “inchino”. Anche qui, e senza trarne sentenze affrettate, emerge questo strato di amorale cultura familistica che confina e si confonde con il consenso alla criminalità organizzata, uno strato che precede il senso delle istituzioni e dello Stato che viene ad aggiungersi e si fa percepire come distante, remoto rispetto alla prossimità accogliente e sollecita delle reti mafiose. Quanto sia resistente e duro in certe aree questo zoccolo lo dice l’irrilevanza che assume un’emergenza terribile. C’è un pezzo, una parte, un angolo d’Italia in cui la tradizione con le sue ambiguità (e i suoi, equivoci quanto si vuole, radicamenti) è più forte anche dell’ultimo arrivato. Il Covid-19 se ne può fare una ragione.
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