Nel pomeriggio del 16 novembre 1922 Montecitorio, sede già allora della Camera dei deputati, era gremito come mai prima. Le tribune stampa erano stipate. I corridoio ostruiti da una massa senza precedenti. In quel pomeriggio avrebbe chiesto la fiducia il più giovane presidente del consiglio della storia, Benito Mussolini, appena 39 anni, parlamentare da poco più di un anno. Vantava un’esperienza politica e giornalistica già di lunghissima data, leader del Partito socialista, direttore de l’Avanti!, poi tra i principali esponenti dell’interventismo, fondatore e direttore del quotidiano Il Popolo d’Italia, capo del fascismo che da due anni metteva a ferro e fuoco il Paese. Il discorso del nuovo presidente del Consiglio non avrebbe dovuto lasciare dubbi sulle sue intenzioni, non nella forma e neppure nella sostanza. Mussolini esordì evitando di rivolgersi ai deputati con la formula abituale “Onorevoli colleghi” sostituita da un molto meno deferente e più secco “Signori”.
Proseguì chiarendo che la sua richiesta di fiducia era solo “un atto di formale deferenza” dal momento che a consegnare il potere nelle sue mani non erano state le istituzioni democratiche ma la parte migliore dell’Italia dandosi “un governo al di fuori, al di sopra e contro ogni designazione del Parlamento”. Concluse con la famosa minaccia esplicita: “Potevo fare di quest’aula sorda e grigio un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costruire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto”.
Il capo del fascismo aveva il senso della teatralità. Sapeva che le parole devono essere supportate e confermate dai gesti. Nel corso del dibattito che seguì le sue dichiarazioni ostentò totale disinteresse, spostandosi da un capannello di deputati fascisti all’altro, a tratti spiegando il giornale per leggerlo, o fingere di leggerlo invece di ascoltare gli onorevoli. Prese ogni tanto la parola ma senza spostarsi dal banco in cui gli capitava di essere seduto in quel momento.
Al momento della replica si trovava al centro dell’emiciclo e parlò da lì invece che dai banchi del governo. Parole e gesti erano studiati e calibrati per esprimere il massimo disprezzo nei confronti del Parlamento. O più precisamente della Camera. Al Senato, che non era elettivo ma di nomina regia e rappresentava dunque solo le élites, il duce passò dai toni del manganellatore alla blandizie e chiarì anzi che “la prima parte del discorso alla Camera”, quella sprezzante e ostile, “non riguarda minimamente il Senato”. I deputati umiliati non opposero alcuna resistenza, nonostante gli insulti con i quali i fascisti avevano interrotto i loro discorsi. Il presidente della Camera De Nicola si dimise dopo che il quadrumviro della marcia generale De Vecchi aveva chiamato “cialtroni” i Popolari, che peraltro facevano parte del governo.
Il deputato socialista Modigliani lanciò un solitario grido, “Viva il Parlamento”, che gli valse solo la minaccia aperta di una spedizione punitiva da parte dei colleghi in camicia nera. In una pausa dei lavori un gruppo di deputati socialisti e popolari si recò da Giolitti per invocare una reazione, forse l’abbandono dell’aula per protesta. L’anziano leader li gelò: “Questa Camera ha il governo che si merita. Non ha saputo darsi un governo in quattro crisi e il governo se lo è dato il Paese da solo”. Mussolini ottenne la fiducia con 306 voti contro 116 e 7 astenuti. A disertare il voto furono 76 deputati. Il verdetto di Giolitti era impietoso ma lucido. La vittoria del fascismo fu in parte essenziale figlia del suicidio del Parlamento. La paura dei socialisti da un lato, i giochi di potere dei principali leader dall’altro avevano impedito nel biennio precedente di dar vita a un governo capace di contrastare la violenza delle camicie nere e l’arrembaggio fascista al potere. Molti vedevano nel “politico” Mussolini la sola possibilità di domare e imbrigliare le squadre fasciste. Sino all’ultimo la speranza dei leader politici dell’epoca era stata quella di “ingabbiare” il capo del fascismo convincendolo a entrare a far parte di un governo guidato da un politico della vecchia guardia.
Tra i papabili erano sfilati uno dopo l’altro l’eterno Giovanni Giolitti, il presidente uscente Luigi Facta, che aveva sì chiesto inutilmente al re Vittorio Emanuele III di firmare lo stato d’assedio per bloccare l’insurrezione fascista passata alla storia come”marcia su Roma” ma senza che ciò gli impedisse di trattare con gli stessi fascisti nella speranza di essere confermato a palazzo Chigi, Antonio Salandra. Sulla decisione improvvisa e a tutt’oggi parzialmente inspiegata del re di non firmare lo stato d’assedio per fermare la marcia su Roma, aprendo così i cancelli al governo Mussolini, pesarono probabilmente diverse considerazioni. Certamente Vittorio Emanuele III temeva, come affermò lui stesso decenni più tardi, la guerra civile. Ma è possibile, come ipotizza Emilio Gentile, il principale storico del fascismo contemporaneo, che quella scelta esiziale fosse conseguente anche allo stallo nel quale di era trovato un Parlamento incapace di affrontare la crisi. Il suicidio assistito del Parlamento proseguì nei due anni seguenti.
Nel 1923 buona parte dei popolari, dei liberali e l’intera destra non ancora fascista votarono la legge elettorale che portava il nome del sottosegretario alla presidenza del consiglio Giacomo Acerbo. Sostituiva il sistema proporzionale con un maggioritario che assicurava al partito più votato, purché superasse la soglia del 25% dei voti, una maggioranza parlamentare schiacciante, pari a due terzi dei deputati.
Nelle elezioni del 6 aprile 1924, le prime e le uniche celebrate con la legge Acerbo, il cosiddetto “listone Mussolini”, nel quale figuravano la maggioranza dei liberali, incluse figure di gran prestigio come Vittorio Emanuele Orlando e Antonio Salandra, moltissimi popolari e le personalità di maggior spicco della destra, ottenne il 60,1% dei voti, ai quali si aggiungeva il 4,1% raccolto da liste fiancheggiatrici.
L’ultimo atto del suicidio del Parlamento fu la crisi seguita al sequestro e all’assassinio di Giacomo Matteotti.
Il crollo dei consensi nei confronti del fascismo fu reale e massiccio, coinvolse anche numerosi fascisti, specialmente “dell’ultima ora”.
La delegittimazione, per la prima volta, minacciava di travolgere lo stesso Mussolini. Tuttavia quel movimento d’opinione, profondo e tale da far tremare le fondamenta stesse del regime nascente, non avrebbe potuto tradursi in insurrezione. Su questo gli storici sono in realtà concordi. La prima linea dello scontro avrebbe potuto e probabilmente dovuto essere proprio il Parlamento. Solo una reazione politica compatta e coordinata delle forze parlamentari avrebbe potuto forzare la mano al re e dare sbocco concreto alla crisi di consensi che avrebbe potuto travolgere il fascismo.
La scelta dell’Aventino, l’abbandono dei lavori parlamentari deciso dalle opposizioni il 26 giugno, sortì l’effetto opposto. Offrì a Mussolini il pretesto per chiudere la Camera, eliminando così il solo luogo politico nel quale la protesta diffusa avrebbe potuto sedimentarsi in proposta politica. Il 3 gennaio 1925 Mussolini diede seguito alla minaccia pronunciata due anni prima con uno dei suoi discorsi più efficaci: quello in cui rivendicava personalmente la responsabilità di tutte le azioni fasciste e chiudeva “l’aula sorda e grigia” che non aveva saputo, nei tre anni cruciali precedenti, saputo opporglisi in alcun modo.