L’Italia ha un problema di classe dirigente. I suoi partiti soprattutto. Molti ne sono convinti, con buone ragioni. Se la politica è “la scienza e l’arte di governare lo Stato” (Treccani dixit) bisognerebbe sperare che a esercitarla ci sia una “classe dirigente” all’altezza del compito. Nella Prima Repubblica l’Italia ha compensato la mancanza di un’Ena francese con un rigoroso “cursus honorum” che imponeva agli aspiranti politici un percorso senza sbavature, magari colpevole di un po’ di nonnismo, ma efficace per costruire uno Stato giovane e ferito da una non breve dittatura.

In Parlamento ci si arrivava dopo aver fatto una almeno quinquennale esperienza di amministratore nel proprio Comune, e magari un passaggio alla Regione (almeno da quando sono state istituite le Regioni). E la prima legislatura coincideva con un silenzio pressoché assordante: il neoparlamentare non aveva diritto di parola, né in Aula né tantomeno fuori. Alla seconda elezione si passava in Commissione, si metteva mano a quanto si era studiato nei cinque anni precedenti.

Se il magistrato è il “perito dei periti”, il buon politico ha sempre dovuto impegnarsi per diventare il miglior amministratore tra gli amministratori, il miglior burocrate tra i burocrati. Per esperienza. Così è stato, almeno fino alla rivoluzione di Silvio Berlusconi. Con lui la politica e le Istituzioni subiscono un infarto, per certi versi benefico. Con il suo governo (e con le sue liste elettorali) si fa posto a tutti, anche a quelli che non hanno mai toccato palla nelle istituzioni. È il mondo dei Signor Nessuno, o quasi. Per fare il parlamentare o il ministro non si pesca da un bacino di “professionisti”, ma nel mare degli amici, che – almeno nelle prime tornate – era difficile che non fossero i migliori di quella parte politica e di pensiero.

Berlusconi nelle sue aziende dava a tutti il titolo di “direttore commerciale”, senza che vi fosse una direzione collegata. Un modo per responsabilizzare le persone o per renderle ciecamente fedeli? Ai posteri l’ardua sentenza. Ma certamente il cambio di paradigma nella selezione della classe dirigente fu bruciante. Oggi si discute se un ministro debba essere laureato o meno: Berlusconi imbarcò nel suo governo super-professori come Antonio Martino, e cavalli di razza solo con la maturità classica, come Giuliano Ferrara; entrambi senza alcuna esperienza amministrativa (anche se Ferrara un suo cursus honorum nel Pd lo fece, eccome).

Nella Prima Repubblica la classe dirigente politica continuava a esercitare la propria professione (per lo più intellettuale) anche durante l’attività politica. Da Amintore Fanfani ad Aldo Moro i vertici della Dc coincisero a lungo con l’élite accademica italiana. E nei “gabinetti dei ministeri” si infarcivano le menti migliori, i giovani talenti, da Reviglio a Tremonti. Laddove oggi si trovano social media manager e influencer. I politici “trombati” diventavano classe dirigente di serie B, buona per un’azienda pubblica minore, o per un ente di secondo livello. Ma almeno potevano vantare la lunga esperienza nelle istituzioni e quindi sapevano che cosa volesse dire amministrare la cosa (o la cosetta) pubblica.

Dopo Berlusconi cambia tutto, per tutti. Non solo nei governi di centrodestra. Il mito della “società civile” contagia sinistra e destra, aprendo le porte alla discreta incompetenza: non solo “nani e ballerine” (come diceva il ruvido Rino Formica per sintetizzare l’arruolamento nelle liste del suo Psi), ma attori, cantanti, atleti, chiamati all’improbabile sforzo di sostituire la classe dirigente politica, ma in realtà utilizzati solo per consolidarne i vertici. Costume diffuso nel Psi di Craxi, così come nel Pd di Occhetto, e poi nell’Ulivo, come nella Margherita.

Dal parlamentare incapace al ministro incompetente il passo fu breve, brevissimo. Capitò di avere ministri del Pd che sbagliassero la sede del loro ministero (effettivamente via Veneto può trarre in inganno) o del M5S che litigassero con la geografia oltre che con la lingua italiana. In queste condizioni come ci si può stupire se si è indurita la classe dei “mandarini”, dei super-burocrati, che diventano sostituti inevitabili del titolare di un dicastero incerto e ignorante. È la legge del vuoto e del pieno. C’è sempre qualcuno che riempie il vuoto lasciato da un altro. Verrebbe da dire che l’esperienza politico-amministrativa che ha costituito per decenni il cemento della classe dirigente italiana sia oggi considerata meno che inutile. L’incompetenza e l’improvvisazione sono diventati un “plus”. Come se per cercare un idraulico o un elettricista ci mettessimo a consultare gli elenchi dei laureati in filosofia.

Il problema di una buona classe dirigente ricorda il quesito beffardo che portò John Kennedy alla Casa Bianca nel 1960, sconfiggendo Richard Nixon: “Comprereste un’auto usata da quest’uomo?”. Quando una comunicazione è efficace la si ricorda anche a sproposito. Il volto mefistofelico del candidato repubblicano – associato a un quesito molto “pop” e molto ideologizzato – segnarono per sempre Nixon, molto prima dello scandalo Watergate. Per giudicare la buona classe dirigente la fisiognomica lombrosiana vale quanto la cooptazione nel mondo degli amici degli amici.

L’amichettismo – una variante linguistica allargata oltre la cerchia dei parenti del vecchio nepotismo? – è una delle ultime derive di una classe dirigente evaporata, a furia di comprimersi in cerchi più o meno magici. Sarebbe ingiusto guardare solo ai casi del governo Meloni: si potrebbero ripercorrere le ultime quattro o cinque legislature, senza trovare vergini innocenti. Nemmeno il governo dei “migliori”, di Mario Draghi, è rimasto esente da questa malattia endemica della classe dirigente.