Napoli appare oggi come una città senza una vocazione, una città che non ha trovato ancora un suo ruolo in questo complicato e difficile inizio di XXI secolo, e forse neppure lo sta cercando. Da capitale borbonica, centro di spesa di burocrazia e di aristocratici rentiers, il compimento dell’Unità la relegò al rango di capoluogo di una provincia arretrata e da allora non è mai riuscita a trovare una sua collocazione. Molti sono stati i tentativi di ridisegnare un suo ruolo dopo le grandi tragedie che hanno caratterizzato la sua storia recente. Dopo l’epidemia di colera del 1883 e la ristrutturazione hausmaniana che ne seguì, il sindaco Nicola Amore volle rilanciarla come città di turismo, città albergo e città museo, votata alle leisures della Belle Époque.

Ma non fu mai in grado di esserlo veramente, restando avvilita dalla miseria di gran parte della sua popolazione. E allora sorse lo straordinario disegno di dare a Napoli un futuro industriale, per impulso di Nitti e del governo Giolitti. Un modello di sviluppo che accantonato dal fascismo, fu ripreso nel secondo dopoguerra dall’intervento straordinario gestito dalla Cassa per il Mezzogiorno. La città fu socialmente modernizzata, sorse una classe operaia matura, presidio di democrazia e fattore di sviluppo. Ma era una industria assistita, incapace di confrontarsi con le rapidi trasformazioni seguite alla crisi del sistema fordista. Quella classe operaia operosa fu risucchiata indietro trasformandosi in un nuovo sottoproletariato post-industriale mantenuto da un umiliante welfare assistenziale.

Anche la vocazione industriale fu quindi una illusione, così come lo fu l’effimera parentesi fascista, quando si voleva fare di Napoli la porta delle colonie d’Oltremare e dell’Africa nuovamente romanizzata. L’ultimo tentativo di dare un ruolo alla città fu quello che animò la prima giunta Bassolino, si cercò, anche se in modo confuso, di rilanciare il ruolo di Napoli come capitale culturale europea, e tuttavia alla fine di quel ventennio di governo, Napoli era famosa non per le sue meraviglie artistiche, ma per essere diventata una nuova Gomorra, centro di poteri e affari criminali incontrastati. Scampia, la più grande piazza di spaccio d’Europa, oscurò col suo degrado sociale e umano le perfette geometrie neoclassiche di Piazza Plebiscito, simbolo di un rinascimento napoletano mai compiuto. E oggi, dopo la crisi pandemica, la città appare stanca, piegata su se stessa, senza idee.

Nonostante le consistenti risorse che stanno per arrivare, senza un disegno, senza un modello di sviluppo, non si va da nessuna parte. I mille cantieri che si apriranno qua e là serviranno a rattoppare e a sanare momentaneamente l’incuria di un decennio. E poi? In un decennio, Napoli è arretrata di un secolo relativamente ai progressi compiuti da altre città italiane, come Milano per esempio, che ha saputo mantenere e rilanciare il suo ruolo di capitale economica della nazione nella nuova realtà europea. É ovvio che il destino di una città è forgiato dalle sue classi dirigenti, ed è ovvio che Napoli ha da sempre un problema di leadership. La mentalità delle classi dirigenti napoletane si è formata durante il dominio spagnolo: la diffidenza del governo vicereale nei confronti dei nobili napoletani fu risolta con il loro umiliante disarmo e con il potenziamento del ceto forense in funzione antinobiliare. Da qui si è generato il particolarismo, il primato dell’interesse personale e familiare sulla vita collettiva, l’assenza di coraggio e di intraprendenza.

Il diffuso costume spagnolo del vivere nobilmente ha poi generato il disprezzo per il lavoro manuale e la ricerca di facili posizioni di rendita e di potere. Il familismo ha compiuto il resto, creando relazioni di potere basate su estese reti di clan familiari capaci di mantenere il controllo su una società disgregata. Una classe dirigente chiusa ostinatamente nel suo egoismo familistico ha trovato infine la sua immagine speculare nel clan camorristico, che imita la stessa mentalità in un contesto sociale diverso. Questa mentalità poche volte è stata spezzata e poche volte abbiamo avuto la fortuna di avere classi dirigenti all’altezza dei compiti di leadership, e solo allora la città ha fatto progressi, per essere poi risucchiata indietro dal ritorno, ancora più forte, della stessa nociva mentalità. Finché sarà prevalente la spagnolesca mentalità da clan questa città sarà fuori dalla modernità, condannata ad essere solo una grande disgregazione sociale, senza una sua vocazione, senza un suo ruolo.