Il saggio
Napoli, il nodo non sciolto dell’informalità urbana

L’abusivismo nella periferia popolare e quello sulle colline borghesi, l’economia del vicolo e il lavoro “da remoto”, l’antico precariato e la moderna flessibilità, l’ambulante che vende merce taroccata e la guida turistica laureata ma senza licenza. Quando si parla di informalità urbana è a tutto questo che si fa riferimento. E con tutto questo Napoli – che è a pieno titolo una città informale – deve necessariamente fare i conti. Deve decidere, insomma, se l’informalità socio-architettonica, che la distingue rendendola “plurale” e ne determina gli stili di vita, è una marcia in più o un tratto caratteristico da archiviare. O se non debba invece mettere all’ordine del giorno la ricerca di un compromesso tra le due ipotesi, e quale. La questione è aperta da secoli: almeno da quando Marx citò i napoletanissimi lazzaroni nel celebre ritratto del lumpenproletariat.
Proprio perché aperta è rimasta, può allora tornare utile un saggio di recente pubblicazione. È apparso nell’Atlante delle città curato dalla fondazione Giangiacomo Feltrinelli, ed è di Nick Dines, un sociologo urbano che si occupa di Napoli così come di Rabat e di Città del Capo. Il suo è un punto di vista “globale”, seppure dichiaratamente di parte, cioè critico del modello neoliberista di città. Ma proprio perché espressione di una cultura che con questi temi si è sempre misurata, il saggio ha un pregio indiscutibile: non risolve il problema, ma almeno lo pone, nel senso che lo inquadra nella giusta dimensione storica e geografica. Finora, infatti, l’informalità di Napoli è sempre stata condannata o esaltata “a prescindere”, e dunque sostanzialmente “rimossa”, perché mai valutata nella realtà.
Dines ci spiega appunto che non è un fenomeno esclusivo, che non è riconducibile al solo folklore, che non si spiega con la sola presenza della criminalità organizzata e che non è prodotto solo dal “basso”, se è vero che le élite spesso lo alimentano o per difendere i propri interessi o per rendere più dinamiche le relazioni sociali e produttive. In più, in virtù di una visione antagonista del mondo, spesso si contraddice anche chi dà l’impressione di voler elevare l’informalità a modello assoluto. Un caso citato nel saggio è proprio quello dell’amministrazione de Magistris, che nel 2017, in nome della lotta al pregiudizio anti-napoletano, finì per avvalorarne un altro uguale e contrario, minacciando querela contro chi impropriamente aveva osato paragonare Napoli ad al-Raqqa in Siria.
Come a dire: sì, noi siamo informali, ma fino a un certo punto. E dunque addio modello assoluto. Forse – sembra suggerirci Nick Dines – è proprio in virtù di queste contraddizioni che hanno trasformato Napoli in un campo di battaglia ideologico che molti problemi sono rimasti irrisolti. In fondo, c’erano una volta le coree di Milano e le borgate di Roma, «aree che sono state risanate e il cui passato abusivo è stato in gran parte dimenticato». Come è possibile, invece, che la rigenerazione urbana di Napoli sia ancora così lenta? L’invito implicito è a non fare di tutta un’erba un fascio, a saper distinguere tra le varie manifestazioni di informalità urbana, perché non sempre l’informalità è il sintomo di una crisi o l’esito di un cedimento della modernità. Un invito che risuona ancora più forte in una città che, dopo il lockdown, quando tutto necessariamente torna in discussione, dovrebbe evitare di farsi prendere dal solito tran-tran.
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