“La bellezza di Napoli cresce di giorno in giorno, di settimana in settimana, via via che scopre i suoi segreti. Finché si giunge a intendere che veramente è questo il più bel golfo della terra”. Le parole di Guido Piovene all’interno del suo celebre “Viaggio in Italia” sono perfette per sintetizzare quanto ci sia da svelare su Napoli, certamente una delle città al mondo più stratificate. “Un’immensa capitale mediterranea, più classicamente antica di Roma stessa e, insieme, spagnolesca e orientale”. In questo caso è la definizione del grande critico Roberto Longhi che coglie nel segno la diversità di Napoli rispetto alle altre città italiane e non solo. Napoli sembra un file zippato di tanti secoli che, per riuscire a starci tutti, hanno finito per confondere i loro codici in un bricolage instabile, variabile, mutevole. Che spiazza il visitatore, ma anche il nativo. Vedi Napoli dal mare. È un imperativo estetico, ma anche una questione di verità.

Una visita alla città più teatrale del mondo non può che partire “ab ovo”, cioè da Castel dell’Ovo, dove l’origine è ancora nell’aria. Qui il mito fa nascere Napoli dal canto di Partenope, una delle sirene di Ulisse. Dalle terrazze di tufo giallo di questa fortezza aragonese a picco sulle onde la città appare simile a un teatro che contempla le isole del golfo perse nell’azzurro. Da un lato Posillipo dall’altro il Vesuvio, il bello e il terribile, che secondo Goethe segnano il carattere del luogo e dei suoi abitanti, contesi tra le acque del golfo e i fuochi del vulcano. Insomma, un paradiso abitato da diavoli!

Il lungomare da qualche anno è diventato una passeggiata gastronomica. Qui la dieta mediterranea è servita per tutte le tasche. Pizze, spaghetti ai frutti di mare, zeppole di alghe fritte, pezzogne all’acqua pazza, alici fritte. Verdure ripassate, saltate, ‘mbuttunate, parmigianizzate. Nelle mani dei napoletani melanzane e peperoni, friarielli (cime di broccolo) e ciurilli (fiori di zucchina), zucchine e carciofi abbandonano il loro corpo vegetale per diventare leccornie. Così buone da far socchiudere gli occhi, perché il principio di piacere per questo popolo refrattario all’idea del peccato, diventa una filosofia di vita. Per capire questa città estroversa e segreta bisogna muoversi rigorosamente a piedi iniziando dal luogo della fondazione e risalendo le sue strade come i rami di un estuario del tempo. Si attraversa Santa Lucia, antico quartiere marinaro reso immortale dalla canzone e si arriva in pochi minuti in piazza del Plebiscito dominata dalla rosea grandiosità del Palazzo Reale costruito dai viceré di Spagna.

In questa che era la piazza delle feste e delle cuccagne, è d’obbligo una prima colazione alla napoletana. Sfogliatella riccia e caffè nello scintillio liberty del Gambrinus dove trascorrevano intere mattinate Oscar Wilde e Sartre, Matilde Serao e D’Annunzio. I decibel sono sempre altissimi. È tutto un tintinnio e un gocciolio di piatti, tazzine e cucchiaini, come in una poesia di Palazzeschi, clof, clop, cloch, cloffete, cloppete, clocchete. Le atmosfere ovattate dei caffè di Vienna e Parigi sono sideralmente lontane. Ma questo fragore sinestetico viene considerato naturale, una parte del paesaggio acustico, del soundtrack di questa città di suoni, di consonanze e di dissonanze che un grande musicista come Hans Werner Henze considerava un arabescato tappeto di frequenze.

La strada è il palcoscenico preferito dai napoletani, che alzano la voce perché tutti partecipino. Walter Benjamin diceva che la vita in questa città ha sempre un’intensa ufficialità, come dire che ogni forma di comunicazione è pubblica e formalizzata. Perfino quella con sé stessi. Ogni luogo una scena, una quinta, un backstage.

Elisabetta Moro*, direttore del Museo Virtuale della Dieta Mediterranea
*L’intervento è tratto dal volume “Andare per i Luoghi della Dieta Mediterranea” (Il Mulino Editore).

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Elisabetta Moro, condirettore MedEatResearch dell'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli