«C’è una violenza dilagante e fine a se stessa. Nisida è un modello, ma sogno un mondo senza carcere». Don Gennaro Pagano, parroco di Nisida, sulla violenza che sta travolgendo i nostri ragazzi.

Don Gennaro, lei conosce i giovani e lavora a contatto con loro ogni giorno. Come spiega questa ondata di violenza che li sta travolgendo?
«Credo che parlare di generazione divorata dalla violenza non sia corretto, gli episodi violenti sono diventati tanti e soprattutto intollerabili per la loro crudeltà e per la loro mancanza totale di significato. C’è una violenza davvero fine a sé stessa. Per ognuno di questi episodi violenti, però, esiste una foresta silenziosa di alberi: ci sono tanti ragazzi che hanno sentimenti buoni. Quindi mi sentirei di non generalizzare, al contempo è ovvio che stiamo raccogliendo i frutti di un processo che dura da anni. La generazione attuale è figlia di un’adultità inesistente. È una società liquida e anche la violenza è diventata liquida, diffusa e senza senso».

Come si è arrivati a questo?
«Penso che Napoli sia arrivata a questa emergenza criminalità-violenza giovanile a seguito della miopia delle istituzioni locali e nazionali che hanno peccato di scarsa lungimiranza, spesso hanno pensato a un tornaconto immediato ma quando si parla di educazione si raccolgono i frutti alla fine di un lungo lavoro, lento e costante. Se oggi investiamo in educazione, vedremo i risultati tra dieci anni, non prima. Un altro fattore che ha contribuito all’esplosione della violenza è l’individualismo, parlo dell’individualismo degli eroi, dei buoni, cioè spesso preti, associazioni, mondo del terzo settore, lavorano da soli, senza fare rete. E questo riduce l’efficacia di un intervento educativo di vasta portata. In realtà, il patto educativo lanciato da Don Mimmo Battaglia va proprio in questa direzione e non può e non deve essere giudicato in tempi brevi. Si tratta di un processo che mira a trasformare uno stile e un metodo e questo richiede anni. Il patto educativo è fatto di tappe, non è un protocollo, non è una firma, è un processo che mira a mettere insieme tutti coloro che si occupano di educazione. Per fare questo ci vuole tempo. Intanto, l’emergenza educativa è al centro dell’attenzione e credo che questo sia già un risultato importante. Mi rendo conto che si vorrebbero soluzioni immediate, ma chiunque lavori in ambito educativo sa che ci vuole tempo».

Lei lavora all’interno del carcere minorile di Nisida. Cosa pensa delle carceri?
«Sono convinto che sia un’esperienza che serve. Sicuramente c’è tanto da migliorare, ma per farlo servirebbero anche molti più fondi. Credo che Nisida per alcuni ragazzi sia stata una salvezza e mentre lo dico mi rendo conto che è una cosa tragica. Ci sono ragazzi che imparano cosa vuol dire avere qualcuno che si prende cura di loro all’interno di un carcere. E questa è una cosa gravissima. Il carcere fatto da persone come quelle che lavorano a Nisida, serve. Al di là di Nisida, non possiamo chiudere gli occhi sulla situazione drammatica dei penitenziari italiani, e credo che il carcere resta comunque espressione di un fallimento dello Stato nel prevenire una condotta deviante. Il carcere forse serve ancora ma spero in un tempo nel quale il carcere non serva più perché le istituzioni, la chiesa e la società hanno fatto la loro parte prima che qualcuno commetta un reato, e non dopo».

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Giornalista napoletana, classe 1992. Vive tra Napoli e Roma, si occupa di politica e giustizia con lo sguardo di chi crede che il garantismo sia il principio principe.