Le sbarre di ferro gelide di una prigione iraniana, arresti, botte, torture e ancora arresti, l’incubo di una condanna a 31 anni di carcere e 154 frustrate non hanno strozzato la voce di Narges Mohammadi. Come un fiore nel deserto, stremata da tutto ciò che la circonda lei grida, grida per i diritti delle donne, perché nel suo Paese non debbano più conoscere il terrore di un velo che, se portato male, finisce per gocciolare sangue. La sua voce si leva alta, sbriciola le sbarre della prigione, sfida un regime che la vorrebbe muta, vola sul sangue, sul dolore, su un mondo che guarda altrove, ma la sua voce è così forte che poi il mondo l’ha sentita. È suo il Nobel per la pace. È un Nobel, è un ossimoro: un premio per la pace e questa volta la pace vuol dire lotta.

“Per la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e per la promozione dei diritti umani e della libertà per tutte e tutti” è la motivazione della Commissione di Oslo che ha sottolineato come la lotta della 51enne attivista e giornalista iraniana è portata avanti “a fronte di un’enorme sofferenza”, ricordano le sue tante condanne e che “mentre ora parliamo è detenuta in carcere”. Sì, le hanno tolto la libertà perché ne chiedeva troppa. Riceve la notizia del premio mentre è rinchiusa in cella nel carcere di massima sicurezza di Evin, Theran. Le hanno tolto tutto, ma non la voglia di alzare la voce.

Il Comitato per l’assegnazione del Nobel ricorda in particolare il suo ruolo nella mobilitazione di protesta seguita alla morte nel settembre 2022 di Mahsa Jina Amini. “Ancora una volta, Mohammadi ha assunto un ruolo guida” si riferisce nelle motivazioni del Nobel. “Dalla prigione ha espresso supporto per i dimostranti e ha organizzato azioni di solidarietà insieme con altri detenuti” sottolineano i giurati. “Le autorità penitenziarie hanno risposto imponendole restrizioni ancora più severe, vietandole persino di ricevere telefonate o visitatori; lei però è comunque riuscita a far diffondere un articolo che è stato pubblicato dal New York Times nel primo anniversario dell’uccisione di Mahsa”.

Il Comitato del Nobel conclude ricordando il messaggio chiave di quel testo: “Più ci rinchiudono, più diventiamo forti”. Chissà se è quello che sta pensando Narges Mohammadi nel buio della sua cella, Narges è stanca e malata, soffre di embolia polmonare e di un disturbo neurologico che le provoca convulsioni e paralisi. L’anno scorso ha avuto ripetuti attacchi cardiaci. Esce dal carcere solo per essere portata in ospedale quando le torture raggiungono vette che sfiorano la morte e allora gli agenti iraniani si fermano. Narges ha raccontato, in una lettera indirizzata alla BBC lo scorso dicembre, di essere stata legata, mani e piedi, sul tetto del veicolo che la portò in prigione e di essere stata violentata dagli agenti di sicurezza. Sono solo alcune delle terribili violenze e umiliazioni che sta subendo dal 1998, anno nel quale ha iniziato a entrare e uscire dalle prigioni iraniane. L’Unione Europea ha invitato a più riprese l’Iran a rispettare i suoi obblighi “ai sensi del diritto internazionale e a rilasciare urgentemente la signora Mohammadi, tenendo conto anche del peggioramento delle sue condizioni di salute”.

Subito dopo la notizia dell’assegnazione del Premio Nobel, il presidente del Consiglio europeo Carlo Michel ha scritto che “Narges Mohammadi è un faro di speranza per le donne oppresse di tutto il mondo. La sua lotta per i diritti umani e la libertà ispira tutti noi. Ci ricorda che solo dove le donne sono al sicuro, tutti sono al sicuro”. Dopo le congratulazioni, la preoccupazione, diventata poi certezza che il governo iraniano non permetta a Narges di volare in Svezia e ritirare il suo premio. “Se le autorità iraniane prenderanno la giusta decisione la rilasceranno così che potrà essere qui per ritirare il premio a dicembre”, ha detto la presidente del comitato dei Nobel di Oslo Berit Reiss-Andersen.

Il Premio Nobel alla dissidente iraniana, ha aggiunto, “è anche un riconoscimento alle centinaia di migliaia di persone che hanno protestato contro le politiche di discriminazione e oppressione contro le donne del regime teocratico”. Immediata la risposta dell’Iran: “Narges Mohammadi ha ricevuto il premio Nobel per la pace per le sue azioni contro la sicurezza nazionale dell’Iran” e ancora “questa riceve il suo premio dagli occidentali”. L’Iran, insieme a Russia e Bielorussia, non è stato invitato alla cerimonia di consegna dei premi Nobel che si terrà a Stoccolma il 10 dicembre prossimo. L’agenzia iraniana fa poi riferimento alle diverse condanne dell’attivista e l’accusa di aver “diffuso propaganda” e di aver ” molteplici volte conquistato i titoli dei giornali per le sue azioni contro la sicurezza nazionale”. Mentre il governo iraniano parla di sicurezza nazionale, una ragazzina di sedici anni è ricoverata in ospedale, in coma, per le botte ricevute dalla polizia perché non indossava correttamente il velo. Sono le donne a non essere al sicuro. Noi sì, noi viviamo nella parte fortunata del mondo.

Io posso indossare una minigonna, posso accendere una sigaretta, posso studiare, lavorare e persino dire la mia. Ma c’è una parte di mondo, non tanto lontana da noi, dove ci sono donne che sognano di poter fare le medesime cose, dove ci sono donne che muoiono per la libertà. C’è una parte di mondo dove Narges combatte a costo della vita per la libertà delle donne. Come un fiore nel deserto, lei grida, grida per tutte noi. Grazie Narges, che il tuo coraggio e il tuo dolore possano far cadere il velo dal capo delle donne iraniane e dagli occhi del mondo.

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Giornalista napoletana, classe 1992. Vive tra Napoli e Roma, si occupa di politica e giustizia con lo sguardo di chi crede che il garantismo sia il principio principe.