Cosa augurarsi a Natale? E perdipiù in un Natale così mogio, triste, desolato?
In questi casi occorre rivolgersi alle donne, al pensiero femminile, che anche nella sventura non si arrende mai del tutto alla disperazione, non cede al nichilismo di maniera oggi dominante. In questi giorni ho letto alcune straordinarie pagine di Hannah Arendt dedicate al tema della “natalità” (curiosamente poco valorizzate anche nella lettura di importanti studiose della Arendt: forse portano verso un argomento sdrucciolevole come quello della maternità), che mi sembrano particolarmente adatte all’attuale ricorrenza. “Natalità” è una delle nozioni centrali nel suo pensiero, accanto a “agire di concerto”, “pluralità” e “banalità del male” (attraversa l’intera sua opera ma viene tematizzata soprattutto all’inizio di Vita activa. La condizione umana, del 1958)
Per lei nella tradizione culturale occidentale si è sempre messo l’accento sull’essere umano come un “mortale” (per i greci “mortale” era sinonimo di “umano”) e non come un “natale”, preferendo aggettivarci luttuosamente, «mai nobilitando il nostro inizio». Un pensiero semplice e geniale, che ribalta una intera tradizione. Anche perciò la Arendt è sempre stata guardata con diffidenza dai filosofi “professionali”: va bene che le sue nozioni non sempre sono enunciate in modo rigoroso, ma sempre ci colpiscono per la loro abbagliante verità.
Dunque, l’essere umano è colui che “comincia” – sua prerogativa esclusiva nel regno dei viventi – , che nasce e perciò fa nascere (questa sequenza logica non è totalmente evidente e la Arendt non la argomenta abbastanza), in ciò emancipandosi dalla ripetitività della materia. Questo ci riporta alla concezione della politica di Hannah Arendt. In essa gli uomini si affermano – orizzontalmente – come soggetti liberi, che si uniscono per condividere un mondo comune e soprattutto per creare – non più in balia della necessità – qualcosa di nuovo e di imprevedibile, e che certo sempre comporta dei rischi (tanto che sembra che l’umanità contemporanea si allontani da ogni “mondo comune”, percepito come conflittuale, per isolarsi nel privato e nelle simulazioni del mondo). Si tratta di una accezione non convenzionale della politica, la quale non si occupa di istituzioni né aspira anzitutto a prendere il potere, ma è agire di concerto (sia singolarmente che pluralmente) per un nuovo inizio, per mettere in atto un processo, sapendo beninteso che poi questo processo sfuggirà in parte al mio controllo. Non tanto cambiare il mondo quanto cominciare qualcosa. In ciò la politica, nella terminologia arendtiana la dimensione dell’”agire”, diversa a quella del “lavorare” e del “fare” – si svela come mero prolungamento di un’attitudine che tutti abbiamo dalla nascita (ed è legata alla nostra stessa nascita come nuovo inizio, come pure osservava un’altra grande pensatrice del secolo scorso, Maria Zambrano, per la quale la luce aurorale, diversa dalla luce a mezzogiorno che fissa le cose pietrificandole, è appunto sorgiva): attitudine – radicata nel mistero della natalità stessa – a cominciare qualcosa, a emanciparsi dalla ripetitività della natura, a non appiattirsi sull’esistente Si dischiude qui uno spazio di libertà, di libero agire, dato che l’essere umano non è un prodotto né è interamente condizionato dalla materia, dai suoi bisogni di sopravvivenza, ma si definisce attraverso quell’essere insieme ( e nuovo cominciamento) che è scopo della politica. Sì, la politica fa nascere qualcosa: nella polis si nasce e si inizia, la nascita stessa è la base della cittadinanza.

La natalità diventa per lei la chiave di lettura del nostro esserci, del nostro essere nel mondo – così come per il grande e vacuo retore Heidegger che fu suo maestro era invece l’essere-per-la morte: natalità come possibilità di un nuovo inizio, come amore per il mondo e per i nostri simili (che a lei proviene dalla lettura di sant’Agostino: la caritas è legata al mondo come pluralità), come fedeltà alla realtà delle cose nel loro continuo accadere, e infine come «gratitudine per il fatto stesso di essere nati». Adoro Céline, ma va quantomeno bilanciato con la Arendt. E “Amor mundi” si sarebbe dovuto intitolare il suo libro più celebre, Vita activa: amore per il mondo, amore per la varietà infinita delle sue apparenze, per il «puro valore spettacolare delle sue vedute, dei suoni, degli odori, qualcosa di pressoché dimenticato negli scritti dei pensatori e dei filosofi» (La vita della mente).Già, pensate solo al mainstream della cultura novecentesca, e al suo disprezzo gnostico per il mondo.
Potreste anche non essere d’accordo con la Arendt, e giudicarla una inguaribile ottimista. Ma vi voglio vedere ad augurare a qualcuno: “Buon Mortale”!