L'attesa di Zelensky
Nato, dal vertice di Vilnius no all’ingresso dell’Ucraina nel Patto Atlantico
Al vertice di Vilnius dell’Alleanza atlantica ha prevalso la linea moderata di Germania e Usa, a discapito di quella dura dei paesi baltici: l’Ucraina ancora senza una road map
Non è ancora il tempo dell’Ucraina nella Nato. Sembra essere questa la sintesi delle decisioni dei leader atlantici riuniti a Vilnius, i quali, pur chiarendo che il futuro di Kiev è all’interno dell’Alleanza, hanno evitato di dare tempistiche certe al governo di Volodymyr Zelensky. Una scelta che il presidente ucraino non aveva accolto in maniera positiva già prima del suo arrivo nella capitale lituana, bollando come «assurdo» il fatto che la Nato non concedesse l’agognata timeline. Il segretario generale Jens Stoltenberg però non ha battuto ciglio. E facendo tesoro delle discussioni interne al blocco e delle dichiarazioni arrivate da Oltreoceano, il vertice della Nato ha confermato che l’organizzazione estenderà l’invito all’Ucraina «quando gli alleati saranno d’accordo e le condizioni saranno soddisfatte». La linea atlantica a questo punto sembra chiara. Si riafferma la volontà che Kiev entri nell’Alleanza: elemento già promesso nel 2008 al summit di Bucarest ma che questa volta viene certificato anche da una velocizzazione del percorso con la rimozione del piano d’azione.
Inoltre, è confermato l’impegno della Nato a sostenere il percorso di adesione dell’Ucraina, con uno sguardo alla interoperabilità delle forze armate e alle riforme in campo militare e politico. Al netto della promessa di un impegno concreto – certificato anche dalla nascita del Consiglio Nato-Ucraina come piattaforma per le decisioni comuni – Bruxelles ha voluto però evitare di disegnare un percorso a tappe delimitato nel tempo per un Paese che, trovandosi in stato di guerra e con enormi incognite sul suo futuro, non dà quelle garanzie necessarie per sapere già da ora i tempi dei prossimi passaggi. La fine del conflitto, dunque, diventa un elemento centrale non solo per il presente dell’Ucraina e del suo popolo, ma anche per comprendere il futuro strategico del Paese e, di conseguenza, del possibile allargamento dei confini della Nato. Quello che appare certo, intanto, è che dal primo giorno di lavori del summit di Vilnius a passare non sia stata la linea più “intransigente” dei Paesi baltici, molto vicini a Kiev e alla sua leadership, ma quella più moderata di Germania e Stati Uniti.
Berlino e Washington, infatti, in queste settimane avevano mostrato parecchia sintonia sul modo di approcciarsi alla questione dell’Ucraina nella Nato, sollecitando soprattutto una maggiore sinergia con Kiev sul piano militare che la rendesse via via più sicura, in linea con gli standard dell’Alleanza, garantita nella sua integrità ma senza manifestare un particolare eccesso di empatia sull’adesione. Il peso specifico della Germania e soprattutto degli Stati Uniti ha poi permesso a questa linea di pensiero di prevalere, rimettendo tutto su un piano di “normalità” del processo e con un focus specifico sul tema delle riforme militari e politiche richieste a Kiev. Per alcuni osservatori, la scelta di Bruxelles e Washington sembra apparire eccessivamente cauta, tanto più nei confronti di un Paese invaso verso cui il blocco occidentale è proteso con aiuti militari e finanziari e con un sostegno politico contro l’invasione scatenata dalla Russia. Tuttavia, in molti sottolineano come fosse preventivabile un risultato soft nelle prime ore del vertice lituano per due ragioni: la guerra in corso, che impone per forza di cose una sospensione del giudizio, non potendo un Paese in guerra chiedere far parte dell’Alleanza; la volontà della Nato di non lanciarsi con dichiarazioni e promesse che avrebbero potuto provocare frizioni all’interno di un blocco che doveva accontentare tutte le diverse anime che lo compongono. Cosa già dimostrata con il prolungamento del mandato di Stoltenberg.
A questo proposito, va sottolineato che la notte prima si era già ottenuto un risultato politico che mostrava una certa compattezza: il semaforo verde del presidente turco Recep Tayyip Erdogan per la richiesta di adesione della Svezia. Il Sultano, dopo mesi di negoziati estremamente duri, ha infatti dato un placet – in attesa, va ricordato, della ratifica da parte del parlamento turco – che per la Nato rappresentava un elemento-chiave per far sì che il summit di Vilnius non fosse ricordato come un passaggio politico senza risultati concreti. Erdogan ha giocato tutte le carte che aveva nel suo mazzo, e lo ha fatto fino all’ultimo. Nelle ore che hanno preceduto l’incontro tra il leader turco, il segretario generale Nato e il primo ministro svedese Ulf Kristersson, da Ankara era arrivato anche il messaggio di unire l’adesione di Stoccolma alla riattivazione del processo di adesione turca all’Unione europea. Cosa che Erdogan ha in parte pure ottenuto riattivando un discorso sospeso da oltre un decennio, ma soprattutto impegnando il governo svedese a sostenere quello anatolico in questo difficile processo di riavvicinamento all’Ue. Non solo. Dagli Stati Uniti sono giunte poi anche nuove conferme sulla cessione dei caccia F-16 all’aviazione turca: un accordo desiderato fortemente dal Sultano che ha così modo di rinnovare la sua flotta aerea anche rispetto al vicino greco.
E in quella che è apparsa come una vera e propria virata a occidente del presidente turco, pesano anche i nuovi accordi commerciali ratificati a margine del semaforo verde a Stoccolma e, secondo alcune fonti, l’ok da parte del Canada a rimuovere l’embargo sull’esportazione di armi in Turchia. Il gioco d’azzardo, l’ennesimo, sembra dunque avere premiato ancora una volta le ambizioni di Erdogan, che nel giro di pochissimi giorni è riuscito a rendersi protagonista di un vertice della Nato che, come detto, senza la rimozione del veto di Ankara alla Svezia rischiava di apparire di basso profilo nonostante le premesse che lo avevano accompagnato e che lo dipingono ancora come pietra miliare. Per Erdogan, una vittoria che forse segna un nuovo cambiamento nella sua visione strategica. Anche se la Turchia, e in particolare il suo presidente, ci hanno spesso abituato a repentini cambi di rotta a seconda del momento.
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