Cambiare idea, fino a prova contraria, è lecito. Cambiarla radicalmente, per di più tutti insieme, è addirittura esilarante. Così il Partito democratico sul Jobs Act si schiera contro se stesso, un inedito della politica sotto tutte le latitudini, un ‘autoreferendum’, come ha ironizzato Matteo Renzi, o forse tecnicamente, un vero e proprio autogol, almeno per la credibilità. Che sarebbe come se il M5S decidesse di battersi per l’abrogazione del reddito di cittadinanza o del bonus 110. O, per andare più lontano nel tempo, se la Dc avesse deciso di muoversi contro il piano casa, voluto da Amintore Fanfani. Difficile da immaginare, nella prima, come nella seconda repubblica. Difficile ma possibile per Elly Schlein, la segretaria del Pd che considera ‘zavorra’ tutto quello che è stato fatto prima del suo arrivo.

L’attenuante c’è, lei ha preso la tessera otto mesi fa per poter gareggiare alle primarie, ne era uscita nel 2015, non prima di farsi eleggere all’Europarlamento nelle liste di Matteo Renzi. Quindi, certamente era altrove, ma tutti gli altri? 250 deputati dem, 105 senatori (quelli che votarono per il via libera del provvedimento), per dire, erano tutti al loro posto. E fu un coro di dichiarazioni enfatiche, i vice segretari, i presidenti dei gruppi (Roberto Speranza alla Camera e Luigi Zanda al Senato), i quadri del partito. Una rimozione collettiva?

“Il Jobs Act è stato condiviso, anche con la minoranza Pd. È una riforma di sinistra”. Debora Serracchiani, all’epoca vicesegretaria. “I dati del Jobs Act sono lì da vedere. Si tratta di un punto di svolta quasi rivoluzionario per il mercato del lavoro”, Antonio Misiani, attuale responsabile economico del Nazareno. “Sul Jobs Act non è il tempo di veti, né di aut aut”, Roberto Speranza, nelle funzioni di capogruppo, rivolto alle opposizioni. Ed ancora, “Una grande cosa di sinistra, dedicata al lavoro e ai giovani”(Graziano Delrio), “questo governo affronta cose che per molto tempo sono state messe sotto il tappeto, a partire dal tema del precariato” (Andrea Orlando), “L’Italia cambierà molto con più lavoro stabile, grazie al governo e al Jobs Act” (Dario Parrini).

In pratica, Il Pd sta smentendo se stesso, in un surreale rovesciamento delle parti. Che poi fosse un caso isolato, invece ormai è un marchio di ‘fabbrica’. Come se una sorta di gene impazzito delle Frattocchie, la serissima scuola che ha formato il Pci, si fosse impossessato di una classe dirigente abile a sostenere tutto ed il contrario di tutto, con la medesima sicumera, un po’ saputella. Oltre al Jobs Act, c’è infatti un caso all’inverso: il reddito di cittadinanza. La misura introdotta da Conte, in versione sovranista, fu avversata con fierezza dal Pd. Oggi sul reddito di cittadinanza, si sperticano le lodi in ogni anfratto del partito, ed in molti casi sono gli stessi, che qualche anno prima, si stracciavano le vesti. E che dire del brusco stop all’aumento progressivo delle spese militari, concordato con la Nato? Gli impegni internazionali erano sacri, soprattutto per chi – tra la scorsa e la precedente legislatura – ha avuto due prestigiosi ministri della difesa come Lorenzo Guerini (governo Conte due e Draghi) e Roberta Pinotti (governo Renzi e Gentiloni). Da circa una settimana, ovvero da quando Elly Schlein si è improvvisamente pronunciata, creando di sana pianta il precedente della Germania, gli stessi impegni evidentemente sono diventati meno vincolanti. C’è chi in questi giorni di radicali ripensamenti ha ricordato il ribaltamento delle posizioni sul salario minimo, vessillo storico del M5S, visto con diffidenza dal Pd per i gli impatti paventati sulla contrattazione collettiva.

Eppure qualche domanda sul Jobs Act andrebbe fatta allo stato maggiore del Pd. Contestano una misura che ha consentito l’assunzione di oltre un milione di persone? Vogliono abolire la Naspi e reintrodurre l’articolo 18? C’è qualche nuova ed illuminante riforma del lavoro alla quale stanno lavorando Marta Bonafoni, Arturo Scotto e Marco Furfaro? Il grande neurologo inglese Oliver Sacks fu autore di un saggio che ebbe un grande successo: “L’uomo che scambiò la moglie per un cappello”. Gli smemorati del Nazareno magari pensano ad una riedizione sullo stesso tema: “Il partito che scambiò le posizioni che sosteneva con quelle che avversava”. Per di più per un referendum solo ipotizzato, che a guardare il calendario, sembra molto difficile da realizzarsi. Che per il codice, sarebbe comunque una circostanza aggravante.

Phil

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