Viviamo in un mondo a due facce, il mondo vecchio e il mondo nuovo. Il nostro spaesamento è figlio della paura del futuro e della perdita di radici, ci siamo convinti di poter fare a meno della memoria, immaginando che diventare moderni implicasse la disdetta di ogni tradizione. L’inversione di questa tendenza dipenderà soprattutto dalla capacità di comprendere ciò che ci sta accadendo e quindi accelerare la costruzione di nuove e convincenti identità culturali, perché la risposta non sta nel riproporre sic et simpliciter antiche idee ma piuttosto in una concezione moderna della cultura politica frutto delle esperienze storiche più significative della cultura europea, a partire da quel “nesso profondo” che intercorre tra cultura socialdemocratica e cultura popolare. In definitiva il punto centrale è una concezione delle culture politiche come qualcosa di non immutabile nel tempo ma di cui va favorita l’evoluzione e l’incontro.

Siamo in una fase di transizione nella quale chi governa sta tentando di tenere in piedi un sistema non più in grado di redistribuirne il frutto stesso dello sviluppo, nemmeno con lo scopo di alimentare i consumi come si è fatto sempre per sanare precedenti crisi. Siamo in un cambio di paradigma.

Il mondo vecchio era fatto di persone che producevano manufatti: si investiva il capitale per produrre merci che sul mercato generavano nuovi capitali. Nella seconda metà del Settecento nasce la “rivoluzione industriale”. L’introduzione e l’uso sistematico delle macchine comportarono la concentrazione della manodopera salariata in un unico luogo, la fabbrica. Il nuovo sistema di lavoro si affermò rapidamente perché permetteva forti riduzioni dei costi di produzione ed elevatissimi profitti. Poi il vecchio mondo ha inventato un altro modo per generare profitti: trasformare i capitali in “pezzi di carta” capaci di trasformarsi in nuovi capitali. E infine ha lasciato il passo a giovani di talento che nel cuore della rivoluzione digitale si sono inventati il lavoro implicito, quello che facciamo ogni giorno cliccando sulla tastiera del nostro smartphone che produce per loro notevoli vantaggi economici.

Il mondo nuovo cambia sotto i nostri occhi e l’innovazione è sempre più veloce. L’avvento del digitale ha fatto esplodere la funzione di controllo degli apparati produttivi (le prime macchine a controllo numerico nella produzione industriale), ha generato la trasformazione robotica nell’industria manifatturiera ma, soprattutto, fa assumere alle “istruzioni per manipolare la materia prima” (la definizione di “informazione” nella produzione usata dal Premio Nobel per l’Economia Paul Romer) il ruolo centrale nel processo economico dell’era digitale. Gli USA, primi nel mondo nel determinare tale “rottura sistemica”, hanno generato i primi vagiti della nuova economia basata sui “dati” e su multinazionali in grado di costruire processi economici basati esclusivamente sul processo di “estrazione”, “interpretazione” e “commercializzazione” dei dati che hanno raggiunto, in quel paese, quasi il 30% del PIL nazionale ed estraggono informazioni su circa 5 miliardi di persone nel mondo. La nuova economia, sulla quale l’Europa non solo non ha avuto la capacità di posizionarsi, ma che fatica ancora a comprendere, sta avendo in questi mesi una ulteriore fase di accelerazione con il rilascio commerciale delle Intelligenze Artificiali Generative che preannunciano un impatto sulla forma e la distribuzione del lavoro senza precedenti.

Viviamo in una società in cui c’è chi sta sopra e chi sta sotto. Quelli che stanno sotto oggi stavano sotto anche prima, ecco perché non è una buona idea tornare a “come eravamo”: dalla fase attuale dobbiamo uscire con la prospettiva di un possibile rovesciamento delle posizioni. Viviamo in una società a piramide: basata su una scala dei redditi da quelli più bassi a quelli più elevati. A ciò corrisponde una graduazione del potere fondata, pur nel rispetto dei diritti individuali, sul principio del più forte. Abbiamo sperato che le crisi che abbiamo attraversato (pandemica, energetica, climatica), e che ancora attraversiamo, ci facessero cambiare rotta, ma siamo consapevoli che, al contrario, ci hanno fatto regredire.

Liquidato l’intervento diretto dello Stato nell’economia, abbandonato nei fatti il welfare-state e decretata la “morte delle ideologie” si è dissolto il comunismo, lasciandoci un deserto in cui i superstiti cercano rifugio nel miraggio di un’oasi, di un “luogo” abitato da comici e saltimbanchi, un pericoloso palcoscenico in cui si rappresenta la crisi del pensiero, come ha scritto Edgar Morin.

In questo scenario la destra, come un virus, è stata capace di mutare: entrata nel corpo della società è stata postfascista e secessionista, fino alle stanze di Palazzo Chigi dove è mutata in partito conservatore e atlantista.

Nella ricerca di una alternativa il senatore Renzi ha proposto di dar vita ad una alleanza di Centro. Il centro (che senza una qualificazione è un segnale stradale) politico, popolare e laburista, potrebbe sbloccare il bipolarismo alla condizione di raccogliere un significativo consenso elettorale. Nel secolo scorso la DC, per la sua stessa piattaforma ideologica contraria agli estremismi, perché prevaricatori del potere pubblico seppe conquistarsi una posizione di centro, nel senso di esercitare una funzione mediatrice tenendo in equilibrio un sistema politico caratterizzato da diverse componenti politiche.

Ma stiamo parlando di una pagina del libro storia patria. La consapevolezza dei cambiamenti che attraversano la nostra società ci costringe a riflettere su queste pagine coniugandole con la realtà in cui dobbiamo operare. Non c’è dubbio che oltre la collocazione serve un progetto politico nuovo, consapevoli che un altro mondo è possibile. Si deve andare oltre, costruire un rassemblement delle formazioni disponibili per le elezioni europee e progettare un nuovo partito. Perché indietro non si torna.

Giampaolo Sodano

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