La malattia, prima, con il ricovero al Gemelli e le comunicazioni quotidiane (quasi “Urbi et Orbi”) sulle assemblee, a piazza San Pietro e sotto l’ospedale Gemelli, con il nome del cardinale che avrebbe diretto la recita del Rosario e la convalescenza, dopo, con le improvvise manifestazioni sulla sedia a rotelle e le sottolineature sul vestito: un “poncho”, hanno quasi del tutto distolto l’attenzione sull’ultimo atto papale di Francesco: l’indizione del Giubileo. Un Giubileo, si badi bene, non “straordinario” (una scelta volontaria del Papa di turno); bensì “ordinario”. Quando un Papa si imbatte nella scadenza giubilare (ogni venticinque anni) compie un atto dovuto, con cui, primariamente, adempie a un servizio già acquisito dalla Chiesa universale. Lo può fare unendovi anche la sua personale valutazione circa il cuore della sua missione papale.

Paolo VI, nel 1975, si concentrò su “Rinnovamento e Riconciliazione”. Aveva portato avanti e concluso un difficile Concilio, convocato dal suo predecessore. Si era dovuto confrontare con una serie di divisioni nella Chiesa, tra cui uno scisma (i Lefebvriani), e con l’insorgenza di molteplici forme di fughe in avanti del cosiddetto dissenso cattolico (dalle occupazioni di cattedrali alle numerose forme e diversificati gruppi di “dissenso di base”). Rattristato, denunciò: “Da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio. C’è il dubbio, c’è l’incertezza, c’è la problematica, c’è l’inquietudine, c’è l’insoddisfazione, c’è il confronto”. Nel suo Giubileo, dunque, il corno di ariete suonò per confermare il “Rinnovamento” e sollecitare la “Riconciliazione” nella Chiesa di fronte al mondo. Giovanni Paolo II, nel 2000, scrisse: “Il passo dei credenti verso il terzo millennio non risente affatto della stanchezza che il peso di duemila anni di storia potrebbe portare con sé…”. L’uomo delle certezze e della vittoria sul comunismo – seppure malato e carico di anni – aprì la porta e fece suonare il corno di ariete per riaffermare la forza della Chiesa, di fronte al mondo.

Francesco, nel 2025, si è mosso cercando una sorta di equilibrio tra la certezza che “la Speranza non delude” (Lettera di Paolo alla comunità cristiana di Roma) e il riconoscimento che “nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé”. Sembrerebbe – da questo incipit della “Bolla di indizione” – che Bergoglio abbia voluto resistere alla tentazione del sensazionale, incamminandosi su un percorso più idoneo ai tempi che il cristianesimo sta vivendo. Fermo restando che “giubileo” non è affatto sinonimo di “giubilare” (è senza fondamento assimilare il termine “giubileo” al latino “jubilum /allegria”) come all’inizio si pensò e come quotidianamente veniamo indotti a ritenere, davanti alle ondate di turisti festanti, quante e quali “porte” aprire? Le porte sono atti simbolici, parole chiave, conversioni, cambiamento di mentalità. Dinanzi alla responsabilità del giudizio sul carattere del “tempo di ora”.

L’imprevista conclusione dell’esistenza di Francesco costituisce una sorta di nuova porta da attraversare, unendo la duplice responsabilità di capire la qualità del tempo di ora, con l’inizio di una seria, serena riflessione sul lascito del Papa: le sue sfide e le sue carenze. Per la Chiesa cattolica si tratta di tornare con umiltà ad apprendere la lezione del Concilio Vaticano II, nella “Nostra Aetate”, impartita in questi termini: “La Chiesa di Cristo riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino nella salvezza, nei Patriarchi, Mosè e i Profeti. […]. La Chiesa, inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odii, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque”.

Occidente ed Ebraismo. Cominciando anche ad ipotizzare un Concilio Vaticano III, a “la Speranza non delude”, unire il monito, sempre di Paolo e sempre nella stessa Lettera alla Chiesa di Roma, di cui Francesco è stato vescovo: “Non menar tanto vanto contro i rami. Se ti vuoi proprio vantare, sappi che non sei tu che porti le radici, ma è la radice che porta te”. E ancora: “Se Dio non ha risparmiato quelli che erano rami naturali, tanto meno risparmierà te”.

 

Mario Campli

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