L’anno della pandemia visto dalla parte dei più indifesi tra gli indifesi: migranti e rifugiati. Il Rapporto annuale del Centro Astalli – sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati – il secondo che esce durante l’emergenza sanitaria, descrive un anno, il 2020, al fianco di oltre 17mila rifugiati e richiedenti asilo, con dati su servizi offerti, nazionalità e status. Ne emerge un quadro in cui l’onda lunga dei decreti sicurezza e le politiche di chiusura – se non addirittura discriminatorie – che hanno caratterizzato la normativa su immigrazione e asilo fino a fine 2020, acuiscono precarietà di vita, esclusione e irregolarità.
Il 2020, l’anno segnato dallo scoppio della pandemia da Covid-19, dal lockdown e dalle misure restrittive per arginare la diffusione dei contagi, ha registrato un aumento degli arrivi via mare di migranti in Italia (34mila), dopo due anni di diminuzione (23mila nel 2018 e 11mila nel 2019). Per molti migranti forzati il Covid non è quindi il peggiore dei mali da affrontare. Violenze, dittature, profonde ingiustizie sociali ed economiche costringono quasi 80 milioni di persone nel mondo a mettersi in cammino verso un paese sicuro. Allo stesso tempo però sono diminuite le richieste d’asilo in Italia: 28mila (contro le 43.783 del 2019). Nonostante numeri decisamente bassi di arrivi rispetto al recente passato, il sistema di protezione fatica a rispondere efficacemente ai bisogni delle persone approdate nel 2020 o già presenti sul territorio. In un anno di accompagnamento dei migranti forzati, complice la pandemia, il Centro Astalli ha registrato un aumento degli ostacoli frapposti all’ottenimento di una protezione effettiva, un intensificarsi del disagio sociale e della marginalizzazione dei rifugiati. Molte situazioni, già in equilibrio instabile, si sono trasformate in condizioni di grave povertà.
Persone rese fragili da viaggi spesso drammatici che durano mesi o anni, si scontrano con normative e prassi dei singoli uffici non di rado discriminatorie, rendendo spesso le questioni burocratiche un potenziale vicolo cieco. Non pochi davanti all’ennesima difficoltà rinunciano a far valere i loro diritti, convinti di non avere alcuna possibilità di vederli riconosciuti. La richiesta di servizi di bassa soglia (mensa, docce, pacchi alimentari, medicine) è forte su tutti i territori: si calcolano 3.500 utenti alla mensa di Roma (tra cui 2.198 richiedenti o titolari di protezione) di questi più del 30% è senza dimora, in stato di grave bisogno e tra loro, per la prima volta dopo molti anni, hanno chiesto aiuto anche italiani. Più di 2.600 utenti si sono rivolti al centro diurno a Palermo. A Trento si è avuta la necessità di trasformare un dormitorio notturno per l’emergenza freddo in un servizio di accoglienza di bassa soglia con uno sportello di assistenza dedicato ai richiedenti asilo senza dimora. A Bologna è stato dato in gestione al Centro Astalli uno spazio in cui realizzare un dormitorio per richiedenti e rifugiati.
I primi esclusi dalla protezione internazionale sono gli sfollati interni che rimangono bloccati nei confini degli Stati da cui scappano, sempre più invisibili, non riescono a raggiungere un Paese sicuro, in cui chiedere protezione. L’aver bloccato gli ingressi a causa della pandemia (durante il primo picco, 90 Paesi hanno chiuso completamente le frontiere anche ai richiedenti asilo), la mancanza di azioni di soccorso e ricerca nel Mediterraneo centrale da parte di governi e Unione europea, l’aver fortemente limitato le azioni delle Ong, finanziando invece attività di ricerca e respingimento da parte della guardia costiera libica, non ha bloccato i flussi irregolari di migranti ma ne ha reso solo meno visibili le conseguenze. Nel 2020 sono stati oltre 11.000 i migranti soccorsi o intercettati nel Mediterraneo, riportati in Libia e lì detenuti in condizioni che le Nazioni Unite definiscono inaccettabili. A questi si aggiungono le oltre 1.400 vittime accertate di naufragi nel corso del 2020. Anche quest’anno molte delle persone che si sono rivolte al centro SaMiFo (Salute Migranti Forzati) sono state vittime di gravi violenze in Libia. Riferiscono di essere state torturate, ma anche di aver subito percosse e abusi indiscriminati.
«Il Rapporto annuale documenta che il numero delle persone che sono arrivate nel 2020 sono aumentate – rimarca a Il Riformista padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli – E questo ci dice come le persone, nonostante la pandemia fuggono lo stesso da situazioni di violenza, pensiamo ad esempio ai centri di detenzione in Libia. La pandemia per loro non è il peggiore dei mali. È uno dei tanti mali che affligge la loro vita. In Italia e nel mondo sono diminuite le richieste d’asilo. La procedura per accedere al riconoscimento della protezione internazionale si è ridotta un po’ in generale, legata appunto alla situazione di difficoltà della pandemia. Ma questo ci dice anche –spiega padre Ripamonti – che c’è, in Europa e nel mondo, una erosione del diritto d’asilo. Si sta perdendo di vista quello è che è la protezione internazionale delle persone. Dal Rapporto emerge la difficoltà sempre maggiore delle persone anche in questo tempo. Quelle persone che abbiamo lasciato ai margini con politiche di esclusione, durante la pandemia sono state ancora più in difficoltà. E questo perché non abbiamo investito sull’integrazione.
La prospettiva per i prossimi anni dovrebbe essere, a nostro avviso, quella di un investimento su una integrazione che sia però anche una integrazione trasversale, perché i problemi dei migranti sono i problemi dei cittadini in generale: la salute, il lavoro, la casa. Quindi un investimento generale sul welfare che abbiamo un po’ dimenticato, come Italia ma anche come Europa. Ritengo che l’investimento dei prossimi anni debba essere un investimento sullo Stato sociale in generale, con una attenzione all’integrazione delle fasce più fragili e tra queste quelle dei migranti e dei rifugiati». Da cosa iniziare, qual è la priorità tra le priorità che lei indicherebbe al presidente Draghi?, chiediamo a padre Ripamonti.
«Ce ne sono due fondamentalmente – è la sua risposta -. In questo momento, l’evacuazione dei centri di detenzione in Libia. Liberare queste persone da una condizione di detenzione che non conosce i diritti umani. E poi guardare al futuro con l’integrazione. Che è qualcosa che punta sull’amicizia sociale, sulla coesione sociale. In questo momento in cui siamo così tutti in difficoltà, puntare su qualcosa che costruisca comunità. E l’integrazione dei migranti è un elemento che costruisce comunità».