Perdere il proprio padre a soli otto anni, perché la barca che lo trasportava si è capovolta, crescere senza di lui insieme alla madre e alla sorella: è quanto accaduto a Björn Larsson (Jönköping, 1953), uno degli scrittori svedesi più noti in Italia, anche per la predilezione che egli nutre verso il Belpaese. Si tratta di un evento decisivo – lo sarebbe stato per chiunque – attraverso il quale possiamo scrutinare gran parte della sua opera, soprattutto adesso, dopo la pubblicazione di Nel nome del figlio (Iperborea, traduzione di Alessandra Scali, pp. 206, 16,50 euro), che ci appare quasi come un faro interno d’orientamento poetico.

I libri di Larsson, nella prevalente matrice marinaresca, ruotano intorno a nuclei narrativi e autobiografici che talvolta si sovrappongono mischiando vita e arte: dal Cerchio celtico (1992), che vede al centro il Rustica, veliero in cui l’autore realmente navigò e visse per un paio d’anni insieme alla sua compagna Helle, alla Vera storia del pirata Long John Silver (1995), splendida esecuzione stevensoniana (completata poco tempo dopo da L’ultima avventura del pirata Long John Silver, capitolo inizialmente escluso), dal Porto dei sogni incrociati (1997), fiaba contemporanea le cui fila sono manovrate con sapienza e malizia da Marcel, capitano di lungo corso, all’Occhio del male (1999, poco prima delle Twin Towers), ambientato nel sottosuolo parigino con Rachid, integralista islamico algerino, dalla Saggezza del mare (2000), concepito come un diario di bordo, al Segreto di Inga (2003), nella cui protagonista ritroviamo l’ansia conoscitiva che caratterizza tutta l’opera di Larsson, uno specialista di Simone de Beauvoir, fino a I poeti morti non scrivono gialli (2010) e La lettera di Gertrud (2019), sorta di thriller esistenziali.

Ma è Bisogno di libertà (2006), composto direttamente in francese, l’antecedente che qui più ci interessa: in quel testo lo scrittore raccontò in modo esplicito la scomparsa del padre nel capitolo Vita e morte: «Era annegato, con altri cinque adulti e due ragazzi, in un naufragio». Senza tacere il rapporto non sempre risolto che ebbe con l’ancor giovane genitore, si chiamava Bernt, a partire dal suo alcolismo, chissà forse alla base della tragedia, che si consumò il 27 agosto 1961 a Skinnskatteberg, nelle acque del lago Nedre Vätter. Con alcuni particolari abbastanza folgoranti: «Fatto sta che mio padre ha preso un martello e ha rotto il mio salvadanaio per comprarsi la sua bottiglia». Nel nome del figlio torna centralmente sulla tragedia, precisando il numero dei morti (sei uomini e due bambini) e l’età del padre (tre anni più di quelli che lo scrittore stesso gli aveva attribuito qualche tempo prima), sommozzatore e inventore di dispositivi elettrici che dopo la sua morte vennero utilizzati su scala industriale. Tuttavia il lettore capisce subito che il dramma personale dell’autore, incapace di piangere quando la zia gli comunicò la disgrazia, viene messo in campo quale strumento di tentata comprensione nei confronti dell’essere umano, cioè di tutti noi: intanto perché è scritto in terza persona, quasi cercando una distanza necessaria a oggettivare una materia scottante, e poi in quanto si tratta di una riflessione sui trucchi e sui possibili inganni della memoria.

Non è facile per nessuno praticare “la passione della verità”, per usare l’espressione di Larsson, ma se vuoi fare lo scrittore non puoi esimerti dal provarci, a costo di rischiare l’osso del collo. Basta la foto del padre, lancinante, posta all’inizio del libro, a farci scattare sull’attenti: qui stiamo facendo sul serio. Questo non è un romanzo. Ma neppure una “semplice storia vera”. Compito della letteratura è scavare a fondo, sino a far venir fuori il sangue. Larsson torna a raccontarci le tappe fondamentali della sua vita: il rapporto irrequieto con la madre, che forse non amò mai davvero Bernt, pronta a rifarsi una nuova vita, e la sorellina, che del padre si ricordava ancora meno di Björn; l’high school dell’Arizona (si chiama ancora oggi Orme, come l’ultimo racconto di Melville, ma questa è un’altra storia), nelle cui classi conobbe perfino la figlia di Ronald Reagan; l’università di Lund, dove ha insegnato per anni letteratura francese agli studenti scandinavi; l’interesse per le pietre e i minerali; il gusto per la libertà, nella consapevolezza della sua matrice verbale (l’uomo è in grado di costruirsi i più sofisticati alibi interiori), ma lo fa sempre nella chiave dell’assenza paterna, chiamando a raccolta, specie nella seconda parte, tutti gli scrittori che su questo tema l’hanno maggiormente suggestionato: dai classici come Turgenev, ai più recenti, per citarne solo alcuni, George Perec, Roman Gary e Patrick Modiano.

Non troveremo, fortunatamente, risposte utili in senso pratico: questo risulta subito evidente. Nessuna ricetta possibile per sanare la ferita. Se ferita è. Bando alle spiegazioni freudiane. O agli schematismi offerti dalla genetica. Bisogna stare attenti a non farci travolgere e confondere dal passato. Verso la fine Björn Larsson lo dichiara con lucidità, a proposito dei ricordi, compresi quelli del padre: «Il fatto di averli non ci garantisce di poterci fidare di loro. Non bisogna accontentarsi, non bisogna riconoscersi completamente nei ricordi che abbiamo». Poi, quasi in chiusura: «E il padre non avrà una seconda possibilità solo perché il figlio ha raccontato quel poco che c’era da raccontare di lui».

Insomma non dovremmo aggrapparci alle risposte che cerchiamo come se fossero salvagenti per non affogare. Quale sia, o dovrebbe essere, la nostra vera identità, fino a che punto sia frutto di chi ci precede o rappresenti invece la conseguenza diretta delle nostre azioni, è faccenda troppo complessa per poterla delegare agli scienziati o ai filosofi. Tuttavia dobbiamo ammettere che, è la letteratura a farcelo intuire, a volte l’intensità delle domande che formuliamo potrebbe risultare sufficiente a garantirci una ragione per vivere.