Rischia di cominciare, esattamente nel modo in cui è finita. Ovvero con l’Italia nell’angolo, stretta da un abbraccio letale con i paesi di Visegrad, con il solito Viktor Orban. Che ha bruciato i tempi e bontà sua ha già deciso: “Gli elettori europei sono stati ingannati. Il Ppe ha formato una coalizione di bugie con la sinistra e i liberali. Non sosteniamo questo accordo vergognoso”. Così l’alleata italiana potrebbe orientarsi verso un’astensione al summit serale di giovedì, che saprebbe tanto di imbarazzo. È il dilemma di Giorgia Meloni, evidente già dalle comunicazioni rese in Parlamento mercoledì.

Troppo poche le concessioni che la maggioranza popolare, socialista e liberale è disposta a concedere, o meglio troppo poche per autorizzare lo strappo che la leader dei Conservatori dovrebbe operare. Certo a pesare c’è la questione dei top jobs, il pacchetto delle nomine, noto da giorni: Ursula von der Leyen alla Commissione, António Costa al Consiglio europeo, Roberta Metsola al Parlamento Europeo, Kaja Kallas come Alto rappresentante esteri. La fotografia dell’odiata maggioranza Ursula della scorsa legislatura, che si ripresenta senza cambiamenti al varo di quella che comincerà il 16 luglio. Un prezzo che sta sembrando ancora troppo alto per la presidente del Consiglio, da qui gli strali verso un’Europa che non tiene conto dei risultati elettorali, in modo particolare quelli della destra nel Continente.

Il dado non è ancora tratto: la Meloni ha dalla sua la ricerca della sicurezza da parte di Ursula von der Leyen, ingolosita dai voti che le potrebbero venire dal versante Fratelli d’Italia. Un forziere che la candidata Presidente deve riuscire ad incassare, evitando la permalosità degli alleati franco tedeschi, che non muoiono dalla gioia di accogliere una parte del gruppo dei conservatori, guidato proprio da Giorgia Meloni. La proposta che Bruxelles ha recapitato a Chigi, è difficilmente modificabile: una vicepresidenza con un portafoglio importante ma non proprio di serie A (il Pnrr), comunque essenziale per l’Italia (con candidato pressoché unico, il ministro Raffaele Fitto), e l’esposizione “urbi et orbi” del patto che Giorgia Meloni ha stretto con l’Albania di Edi Rama. Fino a ieri un prezzo ritenuto insufficiente dalla Presidente del Consiglio.

Impegnato a far lievitare la proposta, è il ministro degli Esteri e Antonio Tajani che dal vertice dei Popolari europei manda a dire: “Tutti hanno compreso che non si può fare qualcosa senza tenere conto dell’Italia. Non è questione di Meloni persona, è questione dell’Italia”. Esattamente l’opposto di ciò che sostiene il cancelliere tedesco Olaf Scholz al suo arrivo al Consiglio europeo: “L’intenzione è che la piattaforma politica che ha sostenuto la signora von der Leyen in passato, Ppe, S&D e Renew, continui a farlo anche in futuro”. Come dire, se Giorgia Meloni decide di raggiungerci, lo farà a sue spese, la maggioranza resta la stessa. Che è esattamente l’incubo della Presidente del Consiglio: spaccare il gruppo, “sporcarsi le mani” con la Commissione, prestare il fianco alle “odiose” incursioni di Matteo Salvini e Marine Le Pen. Il tutto senza mai intravedere neanche per sbaglio il volante, che resterebbe saldo nelle disponibilità dei francotedeschi. La traccia che ha offerto ai deputati durante le comunicazioni parlamentari è sembrata a tutti fortemente orientata verso il no.

La presidente però non ha ancora deciso, consapevole del rischio che corre. Rimanere per un’altra legislatura dietro la lavagna, nella doppia veste di Premier di uno Stato fondatore e di leader politica dei ‘malmostosi’ Conservatori. Di seguire, cinque anni dopo, la parabola discendente del “quasi amico” della Lega, trionfatore assoluto alle Europee del 2019, e perfetto sconosciuto a Bruxelles. Una parabola che solo qualche mese dopo gli fece perdere anche il governo in Italia, per lo “scherzetto” di Giuseppe Conte. Un’esclusione dell’Italia a Bruxelles è un’incognita anche per i nostri conti pubblici, che continuano ad essere il “ventre molle” dell’Europa.

Non poter disporre dell’ombrello difensivo dell’Ue può essere un rischio mortale per la maggioranza di governo. Giorgia Meloni ha ancora 90 minuti per decidere. Il primo tempo prevede la designazione della presidenza della Commissione e l’elezione della presidenza del Consiglio europeo. È necessaria una maggioranza qualifi cata di 15 Stati membri che rappresentino almeno il 65 per cento della popolazione. Quorum ampiamente disponibile senza l’Italia, ma Giorgia Meloni dovrà comunque mandare un segnale. Il secondo tempo (tra il 16 ed il 18 luglio) invece si giocherà con la conta nel Parlamento Europeo. La coalizione-Ursula è sul filo, Fratelli d’Italia dovrà decidere se dare parere favorevole oppure confermare l’autoemarginazione. E pagarne le conseguenze. A Roma intanto la maggioranza di governo ha tre posizioni diverse: la Lega è per il no, Forza Italia per il sì. E Giorgia nicchia. Intanto a Bruxelles aspettano.

Aldo Rosati

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