La sessualità proibita
Nelle carceri l’amore è proibito, ma anche l’autoerotismo
1. Come spesso accade, ha ragione Luigi Manconi (la Repubblica, 20 ottobre) a richiamare l’attenzione sulla recente sentenza di Cassazione (Sez. I penale, 8 giugno 2021, n. 36865) che ha confermato il divieto d’ingresso di una rivista hard richiesta da un detenuto in 41-bis, il c.d. carcere duro. Entrando nel merito (extragiuridico) del nesso tra immagini pornografiche e onanismo, i giudici ammettono con riserva che l’autoerotismo sia «un aspetto della sessualità, nella sua accezione più lata». E scrivono poi che «la fruizione di materiale pornografico costituisce uno dei mezzi possibili per la sua migliore soddisfazione, ma non ne costituisce presupposto ineludibile».
L’abbonamento – a spese del detenuto – ad una rivista per adulti, dunque, è stato legittimamente proibito dalla direzione del carcere, anche a prevenire il pericolo di comunicazioni criptate con l’esterno, capaci di eludere la censura penitenziaria. Azzerando così la diversa decisione del Tribunale di sorveglianza di Roma, la Cassazione accoglie il ricorso del DAP secondo cui «la visione di immagini pornografiche non appariva essenziale all’integrità della sfera sessuale e all’equilibrio psicofisico della persona» ristretta.
2. Scrivono i giudici che «l’autoerotismo non è impedito – di per sé – dallo stato detentivo». Davvero?
I detenuti raccontano altro (cfr. N. Valentino, L’ergastolo. Dall’inizio alla fine, Sensibili alle foglie, 2009, pp. 51-52). Ti dicono che «spesso avere un attimo di intimità in carcere è più difficile che fare una rapina», dovendo pianificare ogni dettaglio. L’orario, da calcolare in relazione ai turni della guardia che passa e dell’infermiere che porta la terapia. Lo spioncino del bagno, sempre aperto per i controlli. L’assenza di riservatezza, in una cella condivisa con più persone. L’inibente imbarazzo, perché ti senti osservato o immaginato da agenti e compagni. «La lotta titanica» tra il desiderio di concentrarsi e la paura di essere colto sul fatto. Ecco perché «è esperienza comune che gli atti migliori d’amore sono quando sei in punizione, in isolamento».
Su tutto questo il diritto rincarava la dose: masturbarsi in cella, infatti, configura il reato di atto osceno in luogo pubblico, perché pubblico è lo spazio del carcere. Oggi depenalizzato, la violazione dell’art. 527 c.p., poteva essere sanzionata con la pena da 3 mesi a 3 anni (dato che l’onanismo è una condotta dolosa). Puoi comunque essere punito con la sottrazione di un semestre dal calcolo della liberazione anticipata, e sono così 45 giorni di galera in più.
Si sa, le seghe servono alla fuga. Perché permettono di tagliare le sbarre alla finestra della cella. Oppure perché permettono – per un breve fazzoletto di tempo – di immaginare di essere altrove, con la persona desiderata. Servono per evadere. Ecco perché sono vietate in carcere.
3. A suo modo, la sentenza della Cassazione è una finestra chiusa su un tema rimosso: la sessualità in prigione. Altrove, il problema non è stato ignorato. Come ha ricordato Angela Stella su queste pagine (Il Riformista, 21 settembre), sono 31 i Paesi europei (ma è così anche in India, Messico, Israele, Canada) che prevedono la possibilità per i detenuti di usufruire, in carcere, di spazi in cui trattenersi con persone cui sono legate affettivamente, al riparo dal controllo visivo degli agenti penitenziari. Il riconoscimento di un vero e proprio diritto soggettivo all’affettività inframuraria è anche l’approdo raccomandato da atti del Consiglio d’Europa, del Parlamento europeo e da sentenze della Corte di Strasburgo. Da noi, invece, non esiste alcuna norma legislativa o regolamentare che disciplini la materia: sul punto, infatti, tace la Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti (d.m. 5 dicembre 2012).
Su questa anomia si è sedimentata un’indulgente narrazione: le relazioni affettivo-familiari sarebbero garantite attraverso molteplici previsioni normative (corrispondenza epistolare, periodiche telefonate ora anche in video-chiamata, permessi di necessità, detenzione – di regola – in un carcere prossimo alla residenza familiare). Quanto ai colloqui, elementari ragioni di sicurezza impongono il controllo a vista da parte degli agenti di custodia. Vale anche per le visite negli appositi spazi di socialità del carcere: l’intimità sarà maggiore, ma mai completa e compiuta. Inevitabilmente sacrificato, il diritto alla sessualità del detenuto troverebbe comunque satisfattiva compensazione nel beneficio extramurario dei permessi-premio.
4. Dunque, i corpi carcerati sono inesorabilmente esposti allo sguardo altrui. Uno sguardo che li accompagna sempre e ovunque, anche nelle azioni fisiologicamente più intime. Uno sguardo che non conosce pause, intermittenza, eclissi.
L’incapacità del detenuto di sottrarsi a questo controllo molto ci racconta della proibizione sessuale inframuraria. Un corpo perennemente guardato, infatti, non appartiene più soltanto a chi lo abita. Fatto oggetto di continua e forzata esibizione, vive il paradosso di essere un corpo sempre “nudo” pur non potendo mai essere realmente nudo. E poiché «l’erotizzazione del corpo necessita la sua velatura» (M. Recalcati, I tabù del mondo, Einaudi, 2017, 94), la vita sessuale che occasionalmente e clandestinamente si consuma dietro le sbarre non può che ricalcare le forme della pornografia: «qui dentro l’amore è un atto osceno», testimonia – non a caso – il detenuto intervistato (G. Bolino-A. De Deo, Il sesso nelle carceri italiane, Feltrinelli, 1970, 25).
5. In realtà, l’anomia dell’ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 1975) sul diritto alla sessualità intramuraria è solo apparente. Nella concretezza della sua applicazione, cela un operante dispositivo proibizionista che non lo ignora semplicemente, né lo nega soltanto. Proibendolo, lo reprime. Si spiega così il parere negativo espresso dal Consiglio di Stato sulla norma del regolamento penitenziario del 2000 (sostitutivo di quello fascista del 1931) che introduceva la possibilità di visite fino a 24 ore consecutive in apposite unità abitative interne al carcere, sorvegliate all’esterno dagli agenti, legittimati a controllarne l’interno solo in casi di comprovata emergenza. La previsione venne stralciata perché considerata contra legem.
Non a caso, dal 1975 ad oggi, mai l’amministrazione penitenziaria o la magistratura di sorveglianza ha autorizzato un detenuto di un qualsiasi istituto penitenziario ad avere relazioni sessuali con il proprio partner. Ciò in ragione di un orientamento giurisprudenziale che riduce la castrazione del suo diritto alla sessualità in un mero pregiudizio di fatto, derivante dallo stato di reclusione, come tale giuridicamente non apprezzabile. La stessa apparente eccezione alla regola – i permessi premio – conferma che solo in occasione di eventuali parentesi extrapenitenziarie può esercitarsi il diritto alla sessualità del detenuto, non anche dietro le sbarre, e solo dopo molti anni di detenzione e per un numero limitato di volte, come «una caramella da assaggiare per quarantacinque giorni all’anno (al massimo)» (N. Valentino, op. cit., 47).
L’operatività di un dispositivo proibizionista intramurario ne esce confermata appieno e trova la propria sineddoche normativa nel formalismo legale dei matrimoni bianchi in carcere (art. 44, legge n. 354 del 1975), celebrati ma non consumati. Per la Cassazione – secondo un ragionamento che si avvita su sé stesso – essi non giustificano la concessione di un breve permesso premio, neppure di necessità, poiché tra gli eventi di particolare gravità che ne sono il presupposto normativo «non può rientrare il diritto ad avere rapporti sessuali, che per sua natura, non ha alcun carattere di eccezionalità» (Sez. I penale, 26 novembre 2008, n. 48165). Vale per tutte le persone, è vero, purché non detenute.
6. L’operatività di questo dispositivo proibizionista pone un serio problema di costituzionalità, come ha avvisato la Consulta. La sua sentenza n. 301/2012 riconosce che il diritto alla sessualità inframuraria è compatibile con lo stato di reclusione, annoverandolo così tra quei residui di libertà personale di cui il detenuto conserva titolarità. Considera il superamento della persistente anomia come doveroso, tracciandone le linee-guida. Certifica l’insufficienza dei permessi-premio a rimedio del problema perché larga parte della popolazione carceraria, de jure o de facto, non può beneficiarne. Eppure, colpito da sospetta ipoacusia, il legislatore ha finto di non sentire.
Ora qualcosa si è mosso. Giace in Senato una proposta di legge del Consiglio regionale toscano e analoga iniziativa intende assumere anche il Consiglio regionale del Lazio. In attesa di esserne normato l’uso, è stato realizzato nell’istituto Rebibbia femminile il Modulo per l’Affettività e la Maternità (M.O.M.A.): uno spazio abitativo di 28 mq per incontri tra detenute e familiari, replicabile altrove. Tocca al Parlamento fare la propria parte, aiutato da una Guardasigilli che sa bene come quello in gioco non sia un lusso, ma un bene primario. Parallelamente, bisognerà tornare a Palazzo della Consulta, perché al suo monito – inascoltato da nove anni – seguano finalmente decisioni coerenti.
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