Non è un’ipotesi, ma un fatto, che gli autori e i mandanti dei massacri del 7 ottobre si rifugino nelle strutture civili di Gaza, vale a dire nelle case, nelle scuole, nelle moschee, negli ospedali. Neppure è un’ipotesi, ma ancora un fatto, che quei macellai li usino come bunker non per la “libertà della Palestina”, bensì in attuazione del diverso programma liberatorio rivendicato dai loro capi: “Distruggere Israele e uccidere tutti gli ebrei, senza lasciarne vivo nemmeno uno”. Chi volesse trovare una denuncia di questa pratica, tuttavia, invano la cercherebbe nella corposa e inesausta produzione comunicazionale di “Medici Senza Frontiere”, l’organizzazione umanitaria che il mese scorso deplorava l’uccisione del “collega” Fadi Al-Wadiya, part time medico e per il resto terrorista, e che l’altro giorno annunciava di dover chiudere una propria clinica a causa dell’ordine di evacuazione diffuso dall’esercito israeliano.

L’ordine di evacuazione

Naturalmente è ben possibile, diremmo anzi probabilissimo, che l’ordine di evacuazione sia stato impartito per completare l’azione di sterminio dei civili privandoli dell’assistenza sanitaria: una misura di irriducibile necessità per il caso, fastidiosamente imponderabile, che le bombe e la carestia possano risultare insufficienti al compimento del genocidio. Ma almeno per ipotesi di scuola potrebbe anche darsi che l’esercito israeliano abbia chiesto l’evacuazione perché deve dare la caccia ai terroristi, i quali non per ipotesi ma di fatto stanno tra quei civili – che usano come sacchi di sabbia – razzolando tra i banchi di scuola e, appunto, le corsie degli ospedali.

Il limite delle agenzia umanitarie

Costretti a dover operare in una situazione tanto drammatica, i signori di “Medici Senza Frontiere” potrebbero – non si dice ogni volta, ma anche una volta sola in nove mesi – sfogare la propria indignazione nei confronti dei tagliagole embedded, assai felici di proclamare che un ulteriore mucchio di carne palestinese (preferibilmente infantile) è stata utilmente offerta in sacrificio. Invece, macché. E macché pure l’Unrwa, l’agenzia Onu inconsapevolmente locatrice di spazi sicuri per i server di Hamas che – ancora l’altro giorno – lamentava l’assenza a Gaza di zone sicure. Cosa probabilmente e drammaticamente vera, salvo che a rendere insicure quelle che potrebbero essere tali c’è – immeritevole di qualsiasi denuncia dell’Unrwa – l’abitudine dell’esercito degli sgozzatori di fare capolino dai tunnel che sbucano a trentacinque metri dall’entrata dell’ospedale o a dodici dalla cattedra dell’insegnante, stipendiato dalla cooperazione internazionale, che illustra agli alunni il loro futuro da martiri. Ma per occuparsi di simili dettagli queste agenzie umanitarie hanno prospettive troppo ampie: dal fiume al mare, diciamo.