Nelli Feroci: “L’uccisione di Haniyeh un successo del Mossad, ma ora escalation possibile. Unifil in Libano così è inutile”

Abbiamo incontrato l’Ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, Presidente dell’Istituto Affari Internazionali, mentre risuona la notizia dell’operazione israeliana a Teheran. Il ministro Antonio Tajani è apparso preccupato: «Nessuno vuole una guerra aperta. Non è nell’interesse di nessuno».

Ambasciatore, il Mossad è tornato. Israele è riuscita a eliminare Haniyeh quando si riteneva più al sicuro, a Teheran.
«Un successo importante, dopo il 7 ottobre. Non è la prima volta che Israele colpisce in Iran. Ha una lunga storia di colpi realizzati sul territorio, ricordo l’uccisione alcuni anni fa del responsabile del programma nucleare».

Israele rialza la testa e dice: i terroristi saranno puniti ovunque, non possono nascondersi.
«Sì ma sottolineo la scelta di colpire Haniyeh quando si trova a Teheran: è un personaggio pubblico, era il capo dell’ala politica di Hamas. Ha viaggiato molto dopo il 7 ottobre. Era comparso anche in Turchia, di recente. Israele ha deciso di ucciderlo a Teheran per dare due messaggi chiari. Ai terroristi: nessuno si senta al riparo, se si mette contro Israele. All’Iran: nessuna remora a colpire chi si trova sul territorio iraniano. Israele può arrivare, chirurgicamente, a eliminare un suo nemico anche in un palazzo del centro della capitale iraniana».

Fuoco alle polveri, adesso?
«Un’escalation non è difficile da prevedere. L’effetto immediato sarà la sospensione sine die dei negoziati con Hamas sullo scambio ostaggi-prigionieri che doveva essere il presupposto di un accordo più ampio sulla cessazione permanente delle ostilità su Gaza. Una prospettiva che oggi non ha più possibilità di attuazione nei prossimi mesi. E poi ci sarà la risposta iraniana…»

Che risposta sarà?
«Non credo sarà diretta. Arriverà dai “proxy” iraniani nell’area mediorientale. In primis Hezbollah, ma non solo».

Quanti missili punta Hezbollah su Israele?
«Migliaia. E li potrebbero usare in un attacco massiccio a partire dalla confinante Galilea. Un passo che probabilmente porterebbe Israele a muovere il suo esercito sul territorio libanese».

Libano sul quale noi italiani contiamo qualcosa: la missione Unifil è a guida italiana ed abbiamo appena fatto partire la Brigata Sassari, a rinforzare il nostro contingente…
«La situazione già oggi è molto precaria. Molto precaria. Con un mandato, come ha sottolineato il ministro Crosetto, che è molto circoscritto. E davanti al rischio molto concreto che un nuovo conflitto esploda in questi giorni, è legittimo chiedersi cosa possa fare Unifil in una situazione di questo tipo».

Cosa può fare, cosa saranno chiamati a fare i nostri militari? Peace keeping tra due fuochi di fila, tra due rampe di missili contrapposte?
«In una situazione di emergenza io penso che non si possa fare niente, le regole di ingaggio e il mandato internazionale ci mettono in un cul de sac nel quale non possiamo fare che una cosa, ragionare su come esfiltrare in sicurezza non solo il contingente italiano ma anche tutti gli italiani presenti in Libano, e tutte le organizzazioni internazionali presenti. Finora la presenza di Unifil ha contribuito ad evitare l’escalation del conflitto, ma non può fare miracoli. Sono lì come osservatori del cessate il fuoco. Non possono fare del peace-enforcing, assolutamente. Devono rimanere come deterrente, come disincentivo per l’uso delle armi. Ma in caso di fuoco incrociato devono essere riportati a casa».

Come si può fermare questa spirale di guerra?
«Solo la consapevolezza, da parte di tutti gli attori, che Israele ha una capacità offensiva molto efficace e che avendo richiamato un altro mezzo milione di riservisti si appresta a sostenere senza problemi anche un conflitto di medio-lungo periodo».

Erdogan segue una sua parabola, nato moderato sta diventando un leader fanatico, arriva a minacciare Israele…
«Sì, ma credo che le sue minacce siano più teoriche che realistiche. Dal 7 ottobre in poi la Turchia si è schierata senza più riserve dalla parte di Hamas, dandole solidarietà in più di una occasione. E come dicevo c’è evidenza di almeno una visita di Haniyeh ad Ankara, negli ultimi tempi. Curioso che la Turchia sia anche un membro della Nato, ma ci hanno abituato da tempo a una politica autonoma. Molto… ottomana».

Questo momento di grande incertezza, che va dal Medio Oriente all’Europa al Sud America può essere dato anche dall’assenza del gendarme del mondo? La Casa Bianca congelata fino a novembre è un problema?
«Sì, è senz’altro vero. C’è un piano di pace molto coraggioso su cui gli americani con Biden si sono spesi molto. A questo punto siamo però con Biden congelato. Ed è ovvio che Netanyahu non ha interesse ad accettare il cessate fuoco adesso. Sa che se alla Casa Bianca arrivasse Trump avrebbe un interlocutore più disponibile nei suoi confronti. La lunga campagna elettorale americana distrae un po’ gli americani e oggettivamente lascia molti soggetti a briglie sciolte».

E la nostra diplomazia, la Farnesina?
«Stiamo facendo un lavoro eccellente. La presenza e l’attività del ministro Tajani ci rende protagonisti nel mondo. Ha preparato lui la visita di Giorgia Meloni a Pechino, che è stata di grande rilevanza. Sbaglia chi prova a sottovalutarla. Sono stati firmati memorandum di grande peso. Pur attenti a non discostarsi troppo dalla linea americana, ci stiamo ponendo come interlocutori strategici per la Cina».

C’è però un aspetto, di quegli accordi, che merita forse un supplemento di indagine, quando si parla di cybersecurity e AI.
«Tutto è plausibile, l’incoraggiamento degli investimenti è fondamentale. Sul tema della collaborazione tra i due governi e tra le autorità competenti sull’Intelligenza Artificiale, occhio. È un tema iper-sensibile, non so quanto siano stati contenti i nostri alleati americani: anche solo l’idea di immaginare una cooperazione su un tema così sensibile è un po’ sorprendente».