Lo stato delle carceri in Italia non è una vergogna recente. È antica quanto l’Italia unita. Una storia costellata, nell’arco di 160 anni, da tentativi di riforma per lo più timidi, da bruschi arretramenti ed eterne fasi di stagnazione. Una parabola segnata sempre dalla dimensione di “universo a parte”, nel quale leggi e diritti non valgono, che è sempre stata propria del carcere nella storia d’Italia. “La storia delle istituzioni penitenziarie nell’Italia moderna sembra correre lungo binari dotati di una logica esclusiva e autonoma, del tutto avulsa dagli avvenimenti politici e sociali del ‘mondo libero’ “, scriveva nel 1975 Guido Neppi Modona.

L’universo carcerario italiano fu istituito, con cinque regi decreti successivi, in due anni, dal settembre 1860 al novembre 1862. Era una mappa variegata: c’erano i bagni penali, inizialmente dipendenti dal ministero della Marina e passati poi, nel 1865, a quello degli Interni; le carceri giudiziarie, dove erano rinchiusi i detenuti in attesa di giudizio o quelli condannati a pene lievi; le case di pena, per i condannati alla reclusione; le case di forza, per le donne; le case penali di custodia, per i giovani; le case di relegazione, per i crimini contro la sicurezza dello Stato. Regole e condizioni di detenzione diversificati ma con alcuni elementi comuni: l’isolamento notturno, il lavoro in comune durante il giorno ma con l’obbligo del silenzio. Sin dall’inizio furono istituite le commissioni di controllo, che avrebbero dovuto vigilare sullo stato delle patrie galere, e la Direzione generale delle carceri, dipendente dal ministero degli Interni, con il compito di dirigere e gestire l’intero settore.

Il primo serio tentativo di riforma complessiva arrivò a cavallo tra gli anni ‘80 e i ‘90 del XIX secolo: un combinato tra il nuovo codice penale Zanardelli, la prima legge sull’edilizia carceraria, il nuovo ed enciclopedico Regolamento carcerario, forte di ben 891 articoli. Nell’occasione fu abolita la pena di morte, sostituita dall’ergastolo, e furono fissate le dimensioni delle celle: m 2,10 x 4 quelle normali, m. 1,40x 2,40 i cosiddetti “cubicoli”. Il regolamento prevedeva anche una dettagliata e per l’epoca decisamente moderna casistica dei vari e molto differenziati modelli di prigione che si sarebbero dovuti edificare. Il tutto rimase solo sula carta: lo stanziamento di 15 mln di lire sul quale poggiava per intero il progetto fu prima tagliato, poi abolito.

Qualche cambiamento reale arrivò solo una decina d’anni più tardi, nei primi anni del XX secolo, con i decreti dell’età giolittiana che abolivano la catena al piede dei condannati ai lavori forzati e sopprimevano alcune delle sanzioni più feroci: i ferri, la camicia di forza, la detenzione nelle “celle oscure”, al buio totale. Poi, per una ventina d’anni, con la guerra di mezzo, si susseguirono solo infiniti dibattiti, denunce, ipotesi di riforma che non portarono però a nulla di fatto sino ai primi anni ‘20, quando una ventata riformista investì la Direzione generale. Si tradusse in enunciazioni di principio, per cui gli strumenti di coercizione dovevano essere privi “di ogni senso di rappresaglia o di punizione” e venir adoperati “come mezzo esclusivo di valore sanitario e non disciplinare”: il “maluso o abuso” di quegli strumenti implicava “responsabilità morali e penali”. Dal principio teorico derivavano una serie di allentamenti delle norme carcerarie, veicolati da circolari ministeriali che confluirono poi, nel febbraio 1922, in un testo di riforma che interveniva sulla disciplina interna, sui colloqui, sulla corrispondenza, sul lavoro interno. Può sembrare poca cosa ma è il primo vero tentativo di riforma penitenziaria, siglato anche dallo spostamento della gestione delle carceri dal ministero degli Interni a quello della Giustizia.

Durò pochissimo. L’avvento del fascismo riportò subito indietro le lancette sino a sedimentarsi nel nuovo Regolamento, varato dal ministro Rocco nel 1931, un anno dopo la definizione del suo codice penale destinato a dettare legge sino al 1975. Rocco divise l’arcipelago penitenziario in tre grandi gruppi: gli istituti per la detenzione preventiva, quelli per le pene ordinarie e quelli per le pene straordinarie. I cardini del nuovo regolamento, che in buona misura riprendeva quelli in vigore salvo fantasie riformiste, erano la totale separazione del mondo carcerario da quello esterno, la frammentazione atomizzata della popolazione carceraria, la suddivisione del tempo in tre sole attività: preghiera, lavoro e istruzione. Veniva stabilito anche che il detenuto non potesse essere interpellato per nome ma solo per numero di matricola. La docilità della popolazione detenuta doveva essere mantenuta tramite bilanciamento di punizioni e benefici, questi ultimi consistenti essenzialmente nella “concessione” del lavoro in carcere o nel trasferimento in strutture più aperte e meno rigide.

La casistica delle proibizioni e delle relative punizioni era più folta. Vietati il “contegno irrispettoso”, i reclami collettivi, ogni gioco, l’uso di parole blasfeme, il canto, il riposo in branda, la non partecipazione alle funzioni religiose più numerose altre proibizioni, a partire dal possesso di qualsiasi strumento atto a scrivere. Attività, come la lettura, considerata a massimo rischio. Era consentito solo scrivere due lettere al mese, ma non alla stessa persona. I sorveglianti assistevano ai colloqui con i parenti. I detenuti erano tenuti a indossare divise uguali, inclusa quella a righe per i condannati in via definitiva. Il regolamento Rocco è sostanzialmente rimasto in vigore fino alla riforma del 1975, frutto di un ciclo di conflitti e rivolte nelle carceri senza precedenti allora e mai più ripetuto in seguito. Il “vento del nord” partigiano non varcò infatti i muri delle patrie galere. Ci furono alcune rivolte, soprattutto a San Vittore, nell’immediato dopoguerra, la principale il 21 aprile 1946 quando un gruppo di detenuti prese 25 persone in ostaggio. Ma tra i capi della rivolta, oltre ai detenuti comuni, c’erano gli ex fascisti. Bastò e avanzò per provocare le proteste della Federazione milanese del Pci quando il questore provò a trattare con i rivoltosi. Finì con lo scontro armato e con una strage.

Nel 1948 fu istituita una commissione parlamentare d’inchiesta sulle carceri, presieduta dal giurista Giovanni Persico. Lavorò due anni, dispensò suggerimenti e consigli nella relazione conclusiva. Qualcosa si mosse. I detenuti tornarono a essere chiamati per nome e cognome, come persone normali. Poterono anche togliersi la divisa e smettere di essere rasati quasi a zero, fu concesso il diritto di leggere e scrivere. Anche in questo caso si trattò uno spiraglio subito richiuso. Nel febbraio 1954, appena tre anni dopo la decisione di dar parzialmente seguito alle raccomandazioni della commissione Persico, il ministro della Giustizia De Pietro si rimangiò quasi tutto con una semplice circolare. Fino al 1960 di intervenire sulle galere non se parlò proprio. In quell’anno il guardasigilli Gonella propose una riforma, che restò al palo per 12 anni per poi finire ingloriosamente sepolta. A smuovere le cose, a partire dalla primavera 1969, furono solo le rivolte.