Il caso della detenuta rom a Rebibbia
Nessun alibi, i rom sono tra gli ultimi
I bambini più piccoli, costretti a stare in carcere insieme alle madri recluse, assomigliano ai cuccioli dei felini cresciuti in cattività: i loro occhi sono tristi e malinconici. Eppure c’è di peggio: partorire in cella di notte, anziché in una struttura protetta, secondo quanto prevede la norma, potendo contare soltanto sull’aiuto improvvisato della compagna prigioniera, peraltro anche lei incinta, come è successo pochi giorni fa a Roma, nella sezione femminile del carcere di Rebibbia, a una giovane rom di origine bosniaca, già madre di altri figli, è un evento indegno di un Paese civile: questo lo sanno tutti. Non dovremmo raccontarlo noi.
Per spiegarlo possiamo immaginare inciampi burocratici, disattenzioni protocollari, noncuranze e/o negligenze, relative a quella responsabilità settoriale che tanti guasti continua a provocare in ogni ambito della vita sociale ancorando l’operatore al semplice mansionario da svolgere, spesso senza tenere presenti i contesti nei quali si agisce. Potremmo definire il suddetto atteggiamento difensivo alla maniera di un alibi formale: io ho eseguito il mio compito, non spettava a me fare in altro modo. A finire stritolati nei gangli di tali isterie precettistiche, assai frequenti quando si lavora a compartimenti stagni, sono le ultime ruote del carro, i più svantaggiati e sprovveduti, chi non sa come contrapporsi al degrado e all’ingiustizia semplicemente perché ci è nato dentro, ha avuto lì la sua formazione, nell’incuria frutto dell’indifferenza, in mezzo agli inevitabili soprusi, le scandalose promiscuità, le mancate scolarizzazioni, le protervie insanabili, le violenze quotidiane, a cui davvero sembra non ci sia rimedio, come se la vita potesse essere solo così. In particolare i rom mandano a monte ogni nostra ipocrisia egualitaria.
Chiunque sia soltanto entrato, almeno una volta, nel campo nomadi di Castel Romano, sulla Pontina, alle porte della capitale, dove la mamma che ha partorito in carcere è cresciuta, e abbia gettato uno sguardo verso quelle casette allineate dietro al recinto, fonte di innumerevoli polemiche, mentre dall’altro lato della strada nei week end fanno quasi sempre la fila le automobili dirette all’adiacente centro commerciale, credo abbia misurato tutto lo scarto fra due universi drammaticamente divisi: quello in cui abitiamo noi e quello della giovane reclusa. Da una parte ci sono i cartelloni pubblicitari delle creazioni esclusive, saldi e coriandoli, dall’altra le stelle di cartapesta schiacciate nel fango.
È questa, io penso, la ragione antica, profonda, strutturale, al di là di tutte le risposte tecniche, giuridiche e amministrative, che sta alla base del parto arrischiato e fortunoso avvenuto nella notte del 3 settembre in uno dei più importanti istituti carcerari italiani. Adesso, apprendiamo, la bambina nata dietro alle sbarre sta bene e la madre è tornata a vivere in una casa a Ciampino. Ma finché non riusciremo a trovare il modo di mettere in rapporto i due mondi separati, non stancandoci di predisporre adeguati collegamenti linguistici e culturali, simili eventi non lieti purtroppo continueranno a ripetersi.
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