Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, è sempre più irritato dalle decisioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla guerra nella Striscia di Gaza. E le divergenze iniziano ormai a farsi sempre più esplicite. L’ultima prova sono state le dichiarazioni dello stesso capo della Casa Bianca, che ha descritto la reazione israeliana al 7 ottobre come “esagerata”, e che “troppi innocenti stanno morendo e questo deve finire”. Le frasi di Biden arrivano dopo che il tour diplomatico del segretario di Stato Anthony Blinken non ha portato i risultati sperata. Il presidente Usa probabilmente si aspettava un primo segnale tangibile per il semaforo verde ai negoziati sulla tregua e la liberazione degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas.

Ma dopo la controproposta dell’organizzazione palestinese, il rifiuto di Netanyahu a cedere di fronte a quelle che ha definito condizioni “deliranti” ha fatto comprendere che per il primo ministro dello Stato ebraico esiste solo una via d’uscita al conflitto: la vittoria totale e la “completa distruzione” di Hamas. Per raggiungere questo risultato, ritenuto essenziale da Netanyahu anche sotto il profilo politico, si deve però passare da una campagna militare nella Striscia di Gaza che appare molto più complessa delle ipotesi prospettate a inizio del conflitto. L’exclave palestinese si è rivelata un campo di battaglia estremamente difficile. I tunnel di Hamas sono molto più ampli e in profondità di quanto previsto da molti osservatori.

Hamas e la forza dei tunnel a Gaza

E la milizia palestinese, addestrata per anni su quell’unico teatro operativo, è apparsa abile e profondamente camaleontica. Secondo i funzionari dell’intelligence militare statunitense sentiti dal New York Times, nei quattro mesi di guerra sarebbe stato neutralizzato solo un terzo dei combattenti di Hamas e delle altre fazioni della Striscia. E una buona parte dell’infrastruttura militare risulterebbe ancora intatta. La difesa israeliana è consapevole di questo problema, al punto che da settimane afferma che per sconfiggere il nemico non basteranno settimane, ma probabilmente altri mesi. L’opinione pubblica dello Stato ebraico appare però sempre più stanca di un conflitto pesante sia sotto il profilo sociale che economico, e frustrata dal vedere ancora più di un centinaio di connazionali tenuti prigionieri.

Netanyahu contro tutti: battaglia finale a Rafah

Insieme alle divisioni interne e al crollo di leadership di Netanyahu (reso evidente anche dai sondaggi), cresce poi la pressione internazionale per una svolta al conflitto che stabilizzi tutto il Medio Oriente. Le parole di Biden sono state chiare. E a conferma di quanto dichiarato dal presidente Usa, sono arrivate anche le dichiarazioni del portavoce della Sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, che negli ultimi giorni ha chiarito la contrarierà dell’amministrazione americana all’avanzata delle Israel defense forces su Rafah. Gli Usa, ha detto Kirby, “non sostengono l’estensione delle operazioni militari dell’esercito israeliano nella città di Rafah”. “Più di un milione di palestinesi sono rifugiati a Rafah e dintorni. È lì che è stato detto loro di andare, quindi ci sono molti sfollati” ha proseguito il consigliere della Casa Bianca, ricordando il dovere dell’esercito israeliano di fare il possibile per la “protezione dei civili innocenti, soprattutto di quelli che sono stati spinti a sud dalle operazioni più a nord”.

Le perplessità di Washington non sembrano però avere scalfito le certezze di Netanyahu, che ieri ha chiesto alle forze armate di fornire al governo i piani di evacuazione dalla città. “È impossibile raggiungere l’obiettivo della guerra di eliminare Hamas e lasciare quattro battaglioni di Hamas a Rafah” ha scritto in una nota l’ufficio del premier israeliano. Ma allo stesso tempo, l’ufficio del capo del governo si è detto consapevole che un’operazione del genere “richiede l’evacuazione della popolazione civile dalle zone di combattimento”. Stando ai dati delle organizzazioni internazionali, lo spostamento potrebbe riguardare più di un milione di palestinesi. Con l’Egitto che teme che alla sua frontiera possa si possa riversare un vero e proprio fiume umano.

Se a Gaza la situazione è critica, anche il fronte settentrionale comincia di nuovo a ribollire. Il generale Ori Gordin, vertice del Comando Nord, ha incontrato i rappresentanti delle comunità al confine con il Libano evacuati da quando è iniziato il confronto tra Hezbollah e Tsahal. Gordin ha detto che le forze armate sono pronte “per l’espansione della guerra e andare all’offensiva” contro la milizia sciita. L’esercito, a detta del generale, vuole “cambiare la situazione della sicurezza nel nord in modo da consentire ai residenti di tornare a casa sani e salvi”. Gli Usa stanno cercando di raggiungere un accordo che eviti l’allargamento del conflitto al Libano. E anche il governo israeliano si è detto disponibile a una “soluzione diplomatica” per allontanare Hezbollah dalla “Blue Line”. Ma la tensione, anche a nord, inizia di nuovo a crescere.