Avanzate, attacchi, pressioni interne e canali diplomatici.
La quotidianità di Israele e della Striscia di Gaza si regge dal 7 ottobre su un equilibrio fondato sulla miscela di questi fattori. E lo ha confermato anche la giornata di ieri. Davanti alla Knesset, il parlamento israeliano, è andata in scena ancora una volta la protesta dei familiari degli ostaggi rapiti da Hamas. Un gruppo di manifestanti ha fatto irruzione durante i lavori della commissione Finanze e ha chiesto al governo di fare di tutto per le persone nelle mani dei palestinesi. “Non ve ne starete seduti qui mentre i nostri figli muoiono”, hanno gridato alcuni di loro. E il primo ministro Benjamin Netanyahu, assediato dai manifestanti anche davanti alla sua residenza, ha incontrato una delegazione di familiari di 15 ostaggi per rassicurarli sull’impegno del governo. Per il leader del Likud si tratta di un momento estremamente complesso.

Netanyahu, i malumori interni e la speranza Trump

Ieri c’è stato un primo voto di sfiducia nei suoi confronti, non passato perché la maggioranza ha lasciato l’aula al momento dello scrutinio. E la richiesta di elezioni anticipate è sempre più insistente, sia dalla piazza che dai partiti dell’opposizione. Un pressing che da tempo è percepito anche dall’esterno, in particolare dagli Stati Uniti, dove il presidente Joe Biden ha fatto capire in più di un’occasione di avere delle forti perplessità riguardo l’alleato israeliano, se non proprio delle visioni opposte riguardo le posizioni politiche e la strategia da seguire nella guerra a Gaza.
Secondo il Washington Post, il premier dello Stato ebraico starebbe considerando l’ipotesi di rimanere ancora al potere almeno fino alle presidenziali americane, nella speranza che il suo amico Donald Trump ritorni alla Casa Bianca. Viste le difficoltà dell’esecutivo e le divergenze con Washington, sembra però difficile che Netanyahu resista così per i mesi a venire. A meno che non inizi a ottenere risultati importanti nel conflitto e nella liberazione degli ostaggi o cominci a fare delle concessioni rispetto alle richieste della comunità internazionale.

Borrell e i due Stati

A questo proposito, ieri si sono visti primi passi anche in chiave europea, durante la riunione del Consiglio Affari Esteri dell’Ue. A Bruxelles, oltre alla discussione sulla missione navale dell’Unione nel Mar Rosso (operazione a carattere difensivo, sottolineano dalla riunione, ma con regole di ingaggio particolari), l’Alto rappresentante per la Politica estera, Josep Borrell, ha predisposto anche un piano di 12 punti per una nuova realtà tra israeliani e palestinesi. L’obiettivo di Bruxelles è una soluzione dei due Stati come unica garanzia della sicurezza israeliana e dell’intera regione. In questo senso, per la diplomazia Ue è necessario soprattutto dare nuova linfa vitale alla rappresentanza politica dei palestinesi, con un’istituzione democratica e credibile che possa avere voce in sede di negoziati e che rappresenti la vera alternativa alla forza politica di Hamas. Per ottenere assicurazioni per lo Stato ebraico e per la ricostruzione di Gaza e delle comunità israeliane di confine, è però necessaria la fine della guerra.

Nella Striscia, la situazione sul fronte umanitario continua a essere drammatica, con le autorità locali legate ad Hamas che denunciano la morte di 25mila persone dall’inizio del conflitto. Nel frattempo, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha confermato che le Israel defense forces continuano “con forza un’operazione estesa nell’area di Khan Younis” che potrebbe “estendersi ulteriormente”. “Il fumo dei carri armati, dell’artiglieria e degli aerei dell’aeronautica continuerà a coprire i cieli della Striscia di Gaza finché non raggiungeremo i nostri obiettivi, primo fra tutti la sconfitta di Hamas e il ritorno degli ostaggi alle loro case”, ha garantito Gallant. Mentre al confine con il Libano, resta alta la tensione tra le Idf e Hezbollah. Anche in questo caso, Gallant ha ribadito la linea dura: nessun cessate il fuoco senza la sicurezza del nord del Paese.