L'intervista
Nicola Rossi: “Serve l’agenda Draghi ma anche una Ue che la sappia recepire”
Abbiamo chiesto a Nicola Rossi, economista di grande esperienza accademica e istituzionale, oggi all’Istituto Bruno Leoni, di analizzare per noi le sfide e le opportunità che servono per rilanciare l’Agenda Draghi. Magari mettendone a punto una nuova. Rossi è in libreria con “Un miracolo non fa il santo”, un saggio sulla “distruzione creatrice nella società italiana” edito da IBL libri.
Che mondo sarà con l’arrivo di Trump?
«Ho la sensazione che molte valutazioni odierne siano precipitose. Le scelte dei prossimi 75 giorni saranno decisive per capire la direzione che prenderà la nuova amministrazione americana. Per quanto riguarda noi europei il tema è però già chiaro. L’Europa deve diventare adulta in tempi rapidissimi o condannarsi alla sudditanza. Ed è bene capire che quest’ultimo sarebbe un destino cui non si potrebbe sfuggire da soli. Ho usato l’aggettivo “adulta” non casualmente. Quì non si tratta di diventare più verdi, più digitali o simili amenità. Si tratta di imparare ad essere autonomi e assumere responsabilità collettive».
L’Europa deve attrezzarsi. Tornare a produrre e a competere come dice Draghi. Serve una nuova agenda?
«L’agenda è necessaria ma, purtroppo, non sufficiente. Possiamo riempire il serbatoio di benzina (o, se si preferisce, ricaricare le batterie) e montare una nuova centralina elettronica ma non ci muoveremo mai come oggi siamo chiamati a fare se l’idea stessa del movimento – del cambiamento spesso severo ma necessario – non sarà presente nella mente dei passeggeri. Di molti italiani e di tanti europei. Il limite del Rapporto Draghi è, a mio modo di vedere, proprio questo: non parla agli europei e senza di essi non c’è agenda che tenga».
Italia produttiva, quella del miracolo economico ora che partita può giocare, tra i dazi ad Ovest e le sanzioni ad Est?
«L’Italia del miracolo economico era, come scrisse allora Guido Piovene, la società “più mobile, più fluida e più distruttrice d’Europa”. Quella Italia sopravvive in alcune realtà imprenditoriali – e non a caso perché sono quelle che hanno le radici più robuste – che non hanno però la forza da sole per determinare la direzione di marcia del paese. Avrebbero bisogno di una classe dirigente e di una politica che le accompagni senza mai condizionarle anzi, al contrario, sollecitandole a battere le strade meno ovvie. E che, se lo fa, non faccia a giorni alterni».
Per la sua analisi come possiamo giocare la partita della competitività globale?
«Innanzitutto, capendo che si giocherà su campi che non conosciamo ancora. Per certi versi, l’intelligenza artificiale è il passato. Quel che dovrebbe interessarci e che è drammaticamente assente nei documenti ufficiali, europei in particolare, è la capacità di capire che ciò che ci interessa è l’innovazione che ci sarà domani e di cui nessuno – in primis la politica o l’amministrazione – conosce la natura, il luogo di nascita, le caratteristiche. Questo significa che dovremmo preoccuparci di creare l’ambiente in cui l’innovazione si manifesta. Pensare ai fondi di venture capital va benissimo ma è inutile se nelle nostre scuole non insegneremo il valore della intrapresa, l’amore per il rischio, l’utilità del fallimento. In Italia, più che altrove ma anche altrove in Europa, ne siamo ancora lontani».
Macron dice che se non si diventa carnivori ci estingueremo. Un salto culturale è possibile, è auspicabile?
«È possibile ed è auspicabile. Ma richiede leadership culturalmente contrarie ad ogni forma di paternalismo. Convinte che ognuno di noi possa definire il proprio percorso. Per usare una espressione cara al nostro Presidente del Consiglio: leader adulti chiamati a guidare una società di adulti, e non follower, pronti a farsi indicare la strada dagli eventi più vicini».
Gli errori del sistema industriale tedesco e dell’automotive in particolare portano quel paese a una crisi di difficile soluzione. Come ne possono uscire?
«Come stanno facendo. Facendo della crisi economica una crisi politica e risolvendola in tempi brevi. Nella prima decade del secolo la Germania era “il malato d’Europa”. Qualche anno dopo ne avrebbe preso la leadership. Gli errori del sistema industriale tedesco sono errori derivanti anche dall’aver preso sul serio le indicazioni che la classe politica per lungo tempo ha dato alla società tedesca. Il tema qui non è la natura giusta o sbagliata di quelle indicazioni. Il tema è che la natura limitata e parziale delle conoscenze della politica e della amministrazione che la coadiuva. Un sistema imprenditoriale avveduto le rispetta ma non le prende mai troppo sul serio. E rifugge dalla presenza di legami troppo stretti con quel mondo che, quando non sono utili, possono rivelarsi letali».
L’Italia delle mille eccellenze rimarrà partner privilegiato degli USA? Come dovrebbero evolvere le nostre PMI?
«Ragioniamo come se dopo la fotografia non fosse arrivato il cinema. Le nostre attuali PMI sono tante? Troppe? Eccellenti? Inefficienti? No, il problema è altro: in Italia da vent’anni a questa parte nascono meno imprese di quante ne muoiono. Quelle che nascono non crescono. Le piccole non diventano medie, le medie grandi. E a quelle che dovrebbero uscire dal mercato non permettiamo di farlo. E’ un sistema esangue. Bisogna che il sistema ritorni ad essere dinamico. E, sottolineo, per fare questo il bilancio pubblico serve molto limitatamente».
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