L'intervista
Nicolazzi: “Costo e distribuzione del gas sono i veri punti deboli dell’Europa”
Il presidente di Isab-Goi Energy punta il dito contro la Ue: “Siamo completamente fuori mercato. L’invasione in Ucraina e i nuovi dazi paventati da Trump ci hanno fatto tornare indietro nel tempo”

Gas russo o Gnl Usa? Cos’è meglio? O forse peggio. Perché tra i dazi di Trump, la guerra in Ucraina e il Green Deal che, all’improvviso, non è più di moda, il problema per l’Europa è la sua (in)dipendenza energetica. Sul tema, Massimo Nicolazzi, economista, presidente di Isab-Goi Energy, la raffineria di Priolo Gargallo (Siracusa), uno degli impianti più grandi d’Europa, ma soprattutto esperto di lungo corso nell’Oil&Gas, ha tante cose da dire.
Partiamo da qui: l’energia è il tallone d’Achille dell’Europa. È davvero così? E se sì, come si risolve?
«Il concetto di “tallone d’Achille” è da relativizzare all’andamento del settore industriale e alla situazione politica complessiva. Prendiamo la Germania. È stata la locomotiva d’Europa avendo solo carbone ed essendo completamente dipendente dall’estero per l’approvvigionamento di idrocarburi. Siamo sì dipendenti dai produttori di fonti fossili, ma è una dipendenza in parte reciproca. Alcuni Paesi produttori sono infatti a loro volta fortemente dipendenti dalle esportazioni energetiche per la propria sopravvivenza economica. Il ricatto della mancata fornitura, in sostanza, non esiste se non per periodi brevi. Il nostro mancato acquisto significherebbe, per loro, una forte contrazione per tacer d’altro della spesa sociale, insomma non poter più pagare le pensioni o tenere aperti gli ospedali».
Quindi il vero tallone d’Achille non è tanto l’approvvigionamento?
«Il problema non è la disponibilità dell’energia, ma il suo costo e la sua distribuzione regionale, con relative conseguenze competitive. Faccio un esempio: grazie allo shale gas, gli Stati Uniti hanno riportato in patria l’intero comparto petrolchimico, producendo etilene da gas. Solo quel segmento, con l’indotto, ha creato centinaia di migliaia di posti di lavoro. Noi, in Europa, siamo completamente fuori mercato: il gas da noi costa da 3 a 4 volte rispetto agli Usa. E il nostro petrolchimico è legato al petrolio, non al gas».
Fuori mercato per motivi strutturali?
«La “sfortuna”, sono eufemistico, è che l’eccesso di produzione di gas è avvenuto proprio nel Paese più consumatore al mondo, con una capacità industriale già molto attiva. Il punto è che gli Stati Uniti producono tantissimo gas e lo consumano in loco. Quindi riescono a mantenere bassi i costi di una commodity che poi si incorpora in tutta la catena industriale».
Sfortune a parte, cosa ci ha fatto tornare indietro nel tempo?
«Due cose: l’invasione in Ucraina e i dazi. Fino a febbraio 2022 abbiamo vissuto una vita intera in cui le guerre e l’occupazione di territori come modalità di espansione erano un ricordo del passato. Le sfide erano industriali, commerciali, ma non militari. L’invasione in Ucraina ci ha riportato nel Novecento. E i dazi – ammesso e non concesso che siano una cosa seria – ci riportano anch’essi indietro nel tempo. La globalizzazione non si è solo fermata: è andata in retromarcia».
Con il Green Deal ci siamo convinti di poter rinunciare all’industria.
«La storia parte da Kyoto, nel 1997. L’accordo prevedeva, in buona sostanza, che i Paesi in via di sviluppo potessero inquinare quanto volessero. Mentre noi, virtuosi, avremmo fatto la nostra parte. Tradotto: noi ci teniamo finanza e servizi e ci liberiamo della “zozzeria” industriale, gli altri cominciano a fare industria inquinando a casa loro per produrre (anche) quello che poi noi importiamo. Non ci siano resi conto, però, che demandando alla Cina il ruolo di “fabbrica per conto terzi” l’abbiamo aiutata ad arrivare a produrre oltre il 50% dell’acciaio mondiale, gettandole così basi per farla diventare potenza anche finanziaria».
Acciaio, plastica, ammoniaca nell’agricoltura… Lo stesso è successo con il fossile. «Prendiamo come esempio il gas naturale. Nel 2005 l’Ue ne ha consumato 491 miliardi di mc/anno; e nel 2023 (al lordo, per comparazione, dei consumi britannici) ne abbiamo consumati 382,5. Quasi un quarto in meno. Però nel 2005 per soddisfare la domanda ci bastava importare meno di 120 miliardi di mc/anno, adesso ne servono più di 300. Nel 2005 producevamo 373,4 miliardi di mc/anno; nel 2023 (sempre al lordo del Regno Unito, che da solo vale quasi la metà) siamo a 81. Forse non abbiamo diversificato abbastanza le importazioni dall’estero. Ma per certo ci siamo totalmente dimenticati di diversificarle con produzioni domestiche».
Dovremmo tornare a esplorare a casa nostra? E come si fa?
«Già. Come si fa? Visto che sono decenni che non si fa più esplorazione. E che la tecnologia, ivi inclusa la sismica, in questo tempo è progredita quasi esponenzialmente. Nessuno oggi può affidarsi ai dati del passato e dirti seriamente cosa c’è sotto senza intraprendere una nuova campagna di rilevazioni».
Però abbiamo investito nelle rinnovabili. Bastano davvero?
«Per ora, no. Su scala mondiale le rinnovabili hanno coperto negli ultimi anni solo l’incremento della domanda, ma non hanno ancora eroso i volumi fossili. Oggi consumiamo più petrolio di sempre, ed emettiamo più di sempre. È vero che in percentuale l’incidenza è scesa di qualche punto, ma le emissioni si fanno con i volumi, non con le percentuali».
E il carbone?
«Ancora oggi, quasi il 40% dell’energia elettrica nel mondo è prodotta a carbone. Se lo togli a Cina e India, dichiarano fallimento domani mattina».
Facciamo un referendum: nucleare, sì/no?
«Prima di “votare” vorrei sapere chi ci mette i soldi e qual è il costo realistico per megawattora prodotto. Io non sono un esperto di nucleare. Ci tengo a sottolinearlo. Da osservatore, vedo che i costi e i tempi delle centrali europee più recenti (Inghilterra, Francia, Finlandia) sono in forte crescita. Il gap rispetto a quel che succede altrove è in buona parte figlio dei nostri fardelli politico/burocratici; e sarebbe bene porvi rimedio per ricominciare a investire. Adesso si discute di nuove tecnologie che abbatterebbero tempi e/o costi. Ricordiamoci comunque che a rendere economica la generazione nucleare non basta la tecnologia. Ci vogliono anche le istituzioni».
Altrove sono appunto più veloci. Penso alla Cina.
«Tempi e costi ridotti, ma anche un regime non democratico il cui sistema decisionale è perciò semplificato e l’opposizione non è consentita. Se guardi alla localizzazione di nuove centrali negli anni recenti, ti potrebbe venire il dubbio di una qualche incompatibilità tra nucleare e democrazia. Dobbiamo invertire il rapporto. Riuscire a essere efficienti senza perciò compromettere il diritto di opinione. In punto di consenso l’opposizione al nucleare sembrerebbe affievolirsi, ma sino a quando il dibattito è solo teorico non è il caso di trarne conclusioni».
Però il modello autoritario sta iniziando ad aver presa in un’Europa in crisi democratica.
«Viviamo spesso le istituzioni come complicazioni, e in questo politiche e regolamenti comunitari spesso purtroppo non aiutano. Però non possiamo rinchiuderci ciascuno a casa propria. Se l’Europa resta quella della Pace di Westfalia, con i suoi piccoli Stati nazionali in realtà ormai solo all’apparenza sovrani, non fa altro che accelerare il proprio declino. Se non troviamo, almeno per materie e settori specifici (penso per esempio a energia, minerali critici e financo Difesa), il modo di costruire una giurisdizione e una sovranità europee anziché nazionali, ai nostri piccoli staterelli non resterà che scegliere individualmente se farsi vassalli e fors’anche valvassini degli Usa o della Cina».
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