No ai rapporti tra toghe e condannati: il divieto che rinnega la Costituzione

L’articolo 3, comma 1, lettera b) del codice disciplinare dei magistrati (D. Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109) vieta al magistrato di «frequentare persona …. che a questi consta… aver subito condanna per delitti non colposi alla pena della reclusione superiore a tre anni… ovvero l’intrattenere rapporti consapevoli di affari con una di tali persone». L’illecito è equiparato espressamente a quello di frequentare un delinquente abituale o professionale.

Ora dobbiamo chiederci quale sia il valore della verità processuale di una sentenza di condanna, che vale nel mondo del diritto, ma non in quello dei rapporti tra le persone o per il giudizio “storico” sui fatti. E qual è comunque il suo valore morale, se conduce a impedire quei rapporti perfino a chi pronunci “di mestiere” condanne a una pena che deve tendere alla rieducazione del condannato e non alla sua emarginazione sociale? Il magistrato non è il rappresentante di una moralità superiore – è quasi ironico il doverlo ricordare oggi, anche se lo abbiamo sempre pensato – ma deve solo rispettare disciplinatamente e con onore i pubblici uffici (art. 54 Cost.). Ebbene, come può la sua condotta non apparire portatrice di un’ipocrisia legalistica se si deve allontanare dall’umanità delle relazioni e non è neppure ammesso a provare, se rinviato al Csm per una violazione disciplinare, che aveva il diritto fondamentale di frequentare un condannato, perché nessuna ragione antigiuridica di pubblico interesse era sottesa a quelle relazioni?

Certo, esistono doveri di stato che toccano a determinate persone in ragione della peculiare funzione, per come devono “apparire” e non solo essere, e che non riguardano altri. Ma qui si tratta di presunzioni assolute di non frequentabilità e di divieti che neppure ammettono prove contrarie e che sono assistite da diritti scriminanti. Non si può sanzionare la sola apparenza antievangelica di frequentare i pubblicani. In uno “storico” incontro svoltosi qualche anno fa a Scandicci, nel 2016, per la Formazione dei magistrati, dedicato alla giustizia riparativa, alcuni organizzatori ebbero la malaugurata idea di invitare a relazionare al pubblico due ex terroristi rossi, condannati all’ergastolo e poi rimessi in libertà dopo aver scontato interamente la pena, e avere anche attivato percorsi di mediazione e condotte riparatorie a favore di vittime vicarie, sostitutive di quelle reali, ma per offese di analogo significato subìte. Il giorno precedente l’incontro si sollevò una reazione da parte di giornalisti, politici, opinion makers della giustizia, alti magistrati, contrariati per questa iniziativa che metteva “in cattedra” autori di gravi o efferati delitti, per lo più imperdonabili. La “testimonianza” degli ex terroristi saltò e le lezioni si limitarono a quelle svolte da professori e magistrati.

Ora sono trascorsi alcuni anni, e la Scuola Superiore della magistratura ospita iniziative anche internazionali in tema di giustizia riparativa, anche con limitate esperienze testimoniali di autori di reato. Forse proprio da quella esperienza di esclusione ha preso avvio un percorso selezionato di ascolto. Per i normali relatori, peraltro, che svolgano anche un’ora di didattica alla Scuola, è stato introdotto l’obbligo di presentare una autocertificazione dalla quale risulti che sono incensurati o se abbiano carichi pendenti. Tutto questo non solo è umiliante, ma profondamente contrario allo spirito dell’art. 27, co. 3, Cost., perché fa intendere che la condanna penale o anche l’essere indagato rende “infetta” la persona, inadatta all’insegnamento a questo pubblico. E come potrà quel magistrato, cioè ogni magistrato, rispettare la lettera, e non solo lo spirito dell’art. 27, co. 3, Cost., se è egli stesso diseducato da queste regole o prassi ordinamentali e persino “disciplinari”? Oggi la recente legge delega n. 134/2021, la c.d. riforma Cartabia, prevede l’introduzione di una “riforma organica della giustizia riparativa”, dove in ogni stato e grado del procedimento penale e durante l’esecuzione della pena sia possibile accedere a forme di mediazione volte ad assicurare la ricostituzione del rapporto fra autore e vittima e a promuovere programmi strutturati a quell’obiettivo, «senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità». (art. 1, co. 18, lett. c).

Questo importante supporto statale alla mediazione penale, debitamente finanziato, rimarrà peraltro una vicenda parallela a quella processuale, dove altre numerosissime forme di “riparazione dell’offesa” già esistono, ma producono specifici e concreti benefici. Invece, l’esito favorevole dei programmi di giustizia riparativa di tipo mediatorio potrà, eventualmente, essere valutato nel procedimento penale o nell’esecuzione (art. 1, co. 18, lett. e). Un obiettivo molto spirituale, dunque, direi evangelico e senza vera contropartita utilitaristica, domina questi istituti, che si affiancano al diritto penale più duro di contrasto alla criminalità. In questa antinomia di logiche, che andranno a coesistere nel sistema, una novità specificamente rieducativa è data dalla previsione standardizzata per i condannati a pena che si mantenga entro i quattro anni di detenzione in concreto (anche per delitti gravi in astratto), di limitare detta pena a forme extracarcerarie, se utili alla rieducazione, e in particolare alle pene sostitutive di semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità, pena pecuniaria (art. 1, co. 17).

Dunque, riassumendo: programmi umanistici senza utilitarismo per recuperare il rapporto tra autore e vittima, rieducazione extracarceraria per pene detentive entro i quattro anni, inclusione e non esclusione. Ma al contempo, per i gestori di questi programmi, divieto di frequentare condannati ad almeno tre anni di reclusione, rifiuto o permanente difficoltà di ascoltare a lezione di formazione testimonianze di docenti-testimoni spiccatamente “qualificati dal reato”, divieto per i relatori della loro formazione di presentarsi senza autocertificare un pedigree specchiato di mancanza di precedenti e carichi pendenti. La domanda è ovvia: quale “cultura” ci aspettiamo che abbiano questi magistrati quando devono applicare le norme rieducatrici? Da dove prenderanno i basamenti professionali della loro visione del mondo, del loro giudizio, e della discrezionalità che esso richiede? Siamo tutti abituati ad antinomie giuridiche e conflitti di coscienza anche dentro alle istituzioni.

Però viene il momento in cui queste contraddizioni esplodono e devono produrre prima un malessere, poi una resistenza, e infine una decisione di libertà e di coerenza. Le più recenti riforme, per quanto interessate anche alla difesa sociale, stanno introducendo una cura per la persona umana che è ora richiesta in misura maggiore anche al magistrato: è questo il primo dovere disciplinare della sua etica del lavoro. Altrimenti la persona da non frequentare, per un gioco di specchi, potrebbe diventare proprio lui.