Dare sempre la colpa a Silvio Berlusconi potrebbe sembrare un’ossessione. Ma la confusione l’ha creata lui. In tempi di dichiarazione dei redditi (l’Imu si è pagata entro il 16 giugno) tornano di moda le discussioni sulla prima casa. Il Cavaliere lanciò il guanto di sfida a Romano Prodi nel 2006 con il proclama: «Aboliremo l’Ici sulla prima casa». Ci riuscì soltanto nel 2008. Nel frattempo l’Ici ha cambiato nome, ora si chiama Imi ma la confusione è rimasta. La premessa è semplicissima: l’Imu è l’imposta che si paga sugli immobili. Non importa che tu stia pagando ancora le rate di mutuo, non interessano al Fisco i sacrifici che hai sostenuto per comprare quel piccolo appartamento in periferia. Devi contribuire alle spese della collettività, versando l’imposta municipale al Comune in cui è situato l’immobile. La scappatoia è una sola: se ci abiti dentro, se hai stabilito in quel trivani la residenza tua e della tua famiglia, allora diventa “abitazione principale” e non paghi l’odiata tassa.

Su quel piccolo dettaglio, ovvero sulla differenza tra abitazione principale e prima casa, nascono gli equivoci. La coppia che si è svenata per quei 70 metri quadrati nella borgata, decide di locare a terzi l’appartamento e andare a vivere in fitto in un posto migliore, dove (sempre in teoria) le amicizie dei figlioli sono… meno pericolose. Ma quella coppia, per dire, incassa 500 euro al mese dall’inquilino e ne paga 800 al suo locatore. Con dieci euro al giorno di differenza, riesce a vivere in un contesto teoricamente migliore. Ma non sono dieci euro al giorno. Perché sul trivani della borgata andrà a versare l’Imu (non avendo più lì, il nucleo familiare, la residenza anagrafica) e le “tasse” sul canone di locazione percepito. Il principio è chiaro, ma non più condivisibile: viene premiato dal sistema fiscale chi compra l’immobile e lì va a risiedere. Ma questo non è il momento di indebitarsi e sempre più famiglie decidono di dare in affitto la “vecchia abitazione principale” e spostare la residenza in una nuova unità immobiliare, senza procedere a compravendite pericolose. A meno che non sei un lavoratore della Pubblica Amministrazione, il posto di lavoro è sempre instabile, precario, incerto.

Ecco, dunque, la proposta: per semplificare la vita degli italiani sarebbe sufficiente spostare le agevolazioni dall’abitazione principale alla prima casa. Percepisco 500 euro al mese dall’inquilino e ne pago 800 sulla nuova casa, dove l’inquilino sono io? Dovrei essere esonerato sia dal pagamento dell’Imu al Comune sia dal versamento delle imposte sul canone di locazione percepito. In fondo non c’è un lucro, percepisco un importo ma ne pago uno maggiore per vivere altrove. E con i tempi che corrono, non mi va di contrarre un altro mutuo. Ho più di quarant’anni, magari di cinquanta e non me la sento di indebitarmi per i prossimi trenta, vendendo il primo appartamento e acquistandone un altro. Lo stesso discorso dovrebbe valere per il reddito percepito: quello che i miei inquilini mi pagano, lo utilizzo per una parte del canone di locazione da corrispondere al proprietario del “quartino” dove mi sono trasferito. La conclusione è paradossale. Circa venti anni dopo, dovremmo sdoganare l’errore tecnico di Berlusconi: no alle tasse e alle imposte sulla prima casa. L’abitazione principale è un concetto ormai desueto. Nessun balzello sulla prima, spesso unica, casa che si possiede.