La testimonianza
Noi ergastolani, navi di Teseo
Il laboratorio di “Spes contra spem” si rinnova nel carcere di Opera con cadenza mensile da anni, grazie a Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, che ne sono ideatori e artefici. Sono stati gli ultimi a sospendere le attività nel marzo 2020 e i primi a riprenderla, e sono sempre loro i primi a tornare «dentro» ogni volta che è possibile; tornano per prendersi cura di un «ritorno» più grande, che si avvera come una nuova nascita, quello di noi ergastolani ostativi.
Io sono al mio trentesimo Natale in carcere e ho sperimentato che le persone possono trasformarsi grazie agli incontri speciali, che io chiamo relazioni significanti, perché arricchiscono il senso della nostra vita, inducendoci alla riflessione e all’esercizio del senso critico. Sono queste relazioni a renderci partecipi di una comunità da cui nei fatti siamo esclusi. In carcere si è soli e anche privati dell’intimità con se stessi, per questo io ho imparato a farmi compagnia studiando, ho appreso come esprimermi e scrivere, per poi ricevere la lezione più grande: comprendere la gravità dei miei errori. Allo stesso tempo ho scoperto anche che le parole che avevo studiato sarebbero rimaste uno strumento inutile in assenza di comunicazione e per questo gli amici di Nessuno tocchi Caino, che ci ascoltano e combattono in nome della fiducia nel nostro cambiamento, hanno tutta la nostra gratitudine.
«Abolire il carcere» è l’argomento principale del Congresso e immagino chi obietta che io, che sono stato un criminale, non abbia il diritto di parlare di abolizione del carcere. Ebbene, non solo costui ha ragione, ma al suo valido argomento aggiungo che, se non mi avessero arrestato trent’anni fa, avrei continuato a commettere crimini. Per questo io non sono per l’abolizione del carcere in sé, ma solo di quel carcere che continua a essere tale con persone che sono diverse rispetto al loro passato. Io sono contrario al carcere che uccide i detenuti tenendoli in condizione di disumanità, ma auspico un’istituzione che rieduchi i criminali e li restituisca alla società come persone nuove. Nei mesi scorsi con alcuni miei compagni abbiamo partecipato a un seminario di filosofia tenuto dall’Università Statale di Milano incentrato sull’identità personale sotto il profilo storico, filosofico, letterario.
In una di queste lezioni abbiamo affrontato il paradosso della nave di Teseo, che narra di un’imbarcazione di legno sulla quale viaggiò il mitico eroe greco. La storia vuole che questa nave si sia conservata intatta nel corso degli anni, ma davvero pensate che questo sia possibile? La realtà dei fatti è che ogni parte dell’imbarcazione che si logorava veniva sostituita, una tavola dopo l’altra, una trave e poi un’altra ancora. Al suo ritorno la nave fu riconosciuta come la nave di Teseo, ma sotto quella apparente identità c’era una nave nuova. Questo paradosso è una metafora della nostra condizione, perché i miei compagni e io, ognuno con i suoi decenni di detenzione, siamo tutti ancora delle navi di Teseo; eppure molte cose sono mutate nel frattempo. Come quella nave anche noi abbiamo affrontato un lungo viaggio e siamo cambiati da un punto di vista culturale, psicologico, sociale.
Noi siamo trasformati da un punto di vista umano, siamo altri, ma per la legge rispondiamo sempre alla stessa identità e dunque dobbiamo restare qua, ancorati allo stesso porto, come navi di Teseo, per effetto di norme ostative che, ignorando e rifiutando la nostra trasformazione, impediscono ogni sviluppo. Chi sostiene queste norme ci ripete che noi abbiamo commesso il male più grande, che noi abbiamo tolto la vita ad altri, perciò si giustifica la nostra condanna a vita. Io ho sbagliato e ogni giorno, da trent’anni, chiedo perdono ai familiari delle mie vittime e a loro rinnovo il mio profondo cordoglio, e continuerò a farlo ogni giorno. E chiedo perdono alla collettività per averla resa insicura a causa delle mie azioni violente e penso altresì alle persone che hanno assistito alle mie azioni violente. Anche a loro io chiedo perdono.
Le norme ostative ci dicono che non abbiamo il diritto di chiedere nulla, ma noi ostinatamente continueremo a chiedere alle persone per bene e alla società civile, alla comunità e alle istituzioni proprio quello che noi non abbiamo avuto. Noi chiediamo quella pietà che noi non abbiamo avuto, la capacità di perdonare che noi non abbiamo avuto, vi chiediamo quell’umanità che noi non abbiamo avuto. Noi vi chiediamo la capacità di amare che noi non abbiamo avuto.
* Intervento al Congresso di Nessuno tocchi Caino
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