Dopo una conversazione durata oltre due ore, verrebbe da titolare: “Adesso parlo io”. E a parlare in questa intervista è Marco Minniti: Ministro dell’Interno nel governo Gentiloni, dirigente di primo piano dei Democratici di sinistra, forse l’uomo più longevo nei governi della seconda Repubblica che ha ricoperto incarichi cruciali per il cosiddetto “cuore dello Stato”.

Una sua affermazione, allora era ministro dell’Interno nel Governo Gentiloni, scatenò un vivace e aspro dibattito a sinistra: “Sicurezza è una parola di sinistra”. È ancora di questo avviso?
Ci sono momenti in cui la storia e l’evoluzione concreta dei fatti esigono di dare risposta a questioni che all’inizio apparivano poco chiare. Sulla questione della parola sicurezza e del suo rapporto con la sinistra, tutto quello che si manifesta sotto i nostri occhi mi sembra che dia una risposta abbastanza chiara ed inequivoca…

Qual è questa risposta?
Vede, ogni qual volta succedeva qualcosa di molto importante, dicevamo “nulla sarà più come prima”. Temo che questa volta veramente nulla sarà più come prima. Tuttavia, questa crisi pandemica globale pone un tema che era già squadernato sotto i nostri occhi, vale a dire il tema del rapporto tra l’individuo e la sua epoca. Sicurezza intesa nel senso più ampio del termine. Sicurezza “fisica”. Salute. Sicurezza di una collettività, e quindi sicurezza dalla minaccia del terrorismo e della criminalità. Sicurezza ambientale. Sicurezza sociale. Sicurezza del diritto. In una sola parola: Giustizia. Come vediamo, in tutte queste definizioni c’è una parola che congiunge tutto. E quella parola è sicurezza. Emerge con evidenza il fatto che chiunque voglia affrontare questo pezzo del corso del mondo, deve misurarsi con questo. Sapendo che su questo tema c’è il confine delicatissimo e anche la sfida più radicale con i nazionalpopulisti.

Non è sufficiente il termine populisti?
Non è sufficiente. Perché quello che abbiamo davanti a noi è un intreccio, non nuovissimo nella storia ma abbastanza inedito nelle forme in cui si presenta adesso, tra nazionalismo e populismo. Il nazionalpopulismo di fronte a queste sfide intende porre una contrapposizione semantica, costringendo l’opinione pubblica a scegliere. Il leit motiv del nazionalpopulismo è: o l’uno o l’altro. Si contrappone la sicurezza individuale, la salute al sentimento di umanità.. Per cui si dice: se tu vuoi garantirti la tua salute devi rinunciare a un pezzo di umanità nel rapporto con gli altri. Perché in un’epoca di coronavirus, l’accoglienza è di per sé il rischio di una contaminazione. E poi si contrappone la sicurezza alla libertà. Se vuoi avere più sicurezza contro la sfida terroristica, rilanciata anche in questi giorni sotto i nostri occhi, devi rinunciare a un pezzo della tua libertà. Sicurezza ambientale. Nello schema del nazionalpopulismo non è possibile garantirla perché viene posta in contrapposizione a crescita e sviluppo. Devi scegliere: o l’uno o l’altra. La sicurezza dei diritti. Anche qui: la contrapposizione tra il bisogno straordinario di giustizia e il principio delle garanzie. Vuoi che la giustizia sia efficace e veloce? Allora devi rinunciare alle “garanzie”. Se le guardiamo insieme, queste rinunce sono la fine di una democrazia. Questo è il senso della sfida drammatica, mai così possente, che il nazionalpopulismo pone alle democrazie, che oggi sono chiamate a gestire una emergenza estrema (Covid) nel rispetto di uno stato di diritto, della trasparenza, della comunicazione corretta, della discussione e del convincimento. I regimi autocratici, le cosiddette democrazie non compiute, non hanno bisogno di misurarsi con tutto questo. Questo è il cuore della sfida per la Sinistra.

Vale a dire?
La sinistra in questa fase storica deve conciliare ciò che i nazionalpopulisti contrappongono. Deve conciliare sicurezza e umanità, sicurezza e libertà, ambiente e sviluppo, giustizia e garanzia. Lo so che è un percorso più difficile. Ma è un compito storico irrinunciabile. Quello cioè di svolgere un grande ruolo che una volta si sarebbe chiamato democratico e nazionale. Nazionale, perché risponde agli interessi di un paese; democratico perché si muove nel cuore dell’attacco alla democrazia. Se questo è il problema, se noi non avessimo fatto il Partito democratico nel 2007 dovremmo farlo adesso.

Nessun pentimento dunque o giudizio fallimentare?
Se la sfida è al cuore delle democrazie qual è la risposta migliore di un partito che si chiama democratico! Un partito che prende di petto la questione. Che appunto perché nella sua impostazione originaria, era l’incontro tra culture e storie differenti – la cultura ambientalista, la cultura socialista, la cultura cristiana – può lavorare a quella conciliazione. Operazione che non può fare soltanto una delle grandi culture progressiste. È giusto che il Pd abbia “voltato la pagina” della ideologia. Dell’ideologia intesa nel senso hegeliano del termine, cioè della falsa coscienza, degli occhiali che ti fanno leggere la realtà non per com’è. Superare l’ideologia tuttavia non significa rinunciare ai principi. Un grande partito non può non avere grandi principi. E aggiungo non può pensare che i suoi principi entrino in contraddizione o in conflitto con il consenso popolare, per cui alcune cose si devono dire a mezza voce, perché altrimenti il popolo non ci vota. In controluce si legge il grande nodo del rapporto tra sinistra e consenso popolare, sapendo una cosa d’importanza vitale…

Quale?
La sinistra o è di popolo o non è. E con quel popolo che deve parlare, e a quel popolo che deve trasmettere il messaggio che è possibile tenere insieme sicurezza e umanità. Sicurezza e libertà. Giustizia e garanzia. Chiudiamo definitivamente la pagina dell’ideologia, apriamo fino in fondo la pagina dei diritti. Un partito così fatto è evidente che si arricchisce se al suo interno vivono espressioni programmatiche, culturali differenti. Diventa anzi un elemento di ricchezza oggettiva, che consente di parlare nella maniera più specifica possibile a pezzi e singole identità delle nostre società. E qui viene il punto dolente per il Pd…

In che senso?
Nel senso che il Partito democratico non ce l’ha fatta su questo. Perché quelle che noi chiamiamo sensibilità/correnti oggi sono diventate un’altra cosa. Una camicia di nesso per il Pd. Sono uno strumento di gestione del potere. Mi chiedo, da predicatore disarmato, può un partito che rischia di diventare una confederazione di correnti, affrontare la sfida che abbiamo di fronte nei prossimi anni? Che non è quella di gestire nel migliore dei modi possibili l’esistente, cosa che non è da buttare via. Sapendo tuttavia che non è possibile gestire nel modo migliore l’esistente se non c’è una innovazione radicale. Ed è questa la risposta vera del voto degli Stati Uniti.

Biden non ha vinto dunque, come si scrive e si dice da diverse parti a casa nostra, perché è stato “moderato”, “centrista”…
Ma quale voto centrista! È un voto riformista. Che è cosa del tutto diversa. Un voto tuttavia di un’America profondamente divisa. Nessuno si illuda che con lo straordinario risultato elettorale conseguito da Biden si cancelli, con un tratto di penna, il nazionalpopulismo nel mondo. C’è una grande maggioranza di americani che vuole voltare pagina. Ma ci sono anche 72 milioni di voti che sono andati a Trump. E qui c’è il gigantesco contrappasso, quasi uno scherzo della storia. Con la sua reazione al voto, Trump sta rendendo gli Usa più deboli. Il teorico dell’ “America first” sta facendo un danno drammatico al suo paese. È “America second”, perché prima c’è “Trump first”. Se vuoi, ciò è iscritto dentro la logica del nazionalpopulismo: anche nel momento in cui si innalza la bandiera di un sentimento collettivo, come “Prima l’America”, poi quel sentimento è sottoposto all’egoismo del potere, alla bizzarria e all’arbitrio del singolo capo. Il riformismo se vuole essere vincente deve misurarsi con la radicalità del suo approccio. Il rischio più grande che noi oggi viviamo è l’affermarsi di una risposta che riproponga una società drammaticamente divisa tra garantiti e non garantiti. È il Covid che ti spinge in questa direzione. A fotografare quello che già c’è. Chi è. Già garantito continuerà ad esserlo, chi non lo è sarà messo drammaticamente ai margini. Così una democrazia non regge. C’è poi, altrettanto cruciale, drammatico, il tema delle nuove generazioni. Noi stiamo chiedendo ad esse di assumersi un peso enorme per quanto riguarda il futuro. Il Debito Pubblico. Stiamo lasciando loro un paese peggiore di quello che noi abbiamo trovato. Se questo è il tema, è chiaro che tu devi avere una spinta fortissima all’Innovazione. Lo dico brutalmente: l’Italia e l’Europa non possono essere soltanto paesi per vecchi. Proprio per questo dobbiamo cambiare anche la struttura materiale dei partiti. Quella camicia di nesso va strappata

Come si fa?
Si apra una fase costituente per un grande progetto di una sinistra che tenga insieme riformismo e radicalità. Aprire porte e finestre, fare entrare gente nuova. Una grande palestra del pensiero, utilizzando al meglio tutti gli strumenti della comunicazione e del web. Antonio Gramsci, discutendo della differenza che c’è tra un gruppo di comando e un gruppo dirigente, rimarcava una cosa che mi permetto di ricordare adesso: il gruppo di comando lavora per confermarsi in quanto tale. La verità di un gruppo dirigente, diceva Gramsci, è quella di costruire le condizioni del proprio superamento. Un gruppo dirigente si realizza davvero quando ha costruito un altro gruppo dirigente.

La sinistra italiana ha dimenticato Gramsci?
Temo proprio di sì.

In una interessante intervista di qualche tempo fa al prestigioso settimanale Stern, lei ha sostenuto che l’Europa e l’Italia si giocano molto, se non tutto, nel Mediterraneo. È ancora di questo avviso?
Quel bambino, il piccolo Joseph, che muore annegato nel Mediterraneo non può essere una storia da ottava pagina. Neanche per un secondo può essere considerata una vicenda di ordinaria amministrazione. Non si può morire in quel modo. È inaccettabile. È una sconfitta per le nostre democrazie. Non si può lasciare il Mediterraneo centrale privo di un presidio di ricerca e salvataggio in mare. Fino al 2018 questo è esistito, coordinato dalla Guardia costiera italiana, ne facevano parte organizzazioni non governative, la missione europea “Sophia”, la Guardia costiera libica. E questo ha coinciso con la più significativa riduzione degli arrivi illegali nel nostro paese e contemporaneamente una significativa diminuzione del numero dei morti nel Mediterraneo. Il messaggio deve essere chiaro e netto: nel 2020 non è più possibile, non è più accettabile che i trafficanti di esseri umani controllino il trasferimento delle persone. C’è bisogno di un radicale cambio di paradigma nelle politiche migratorie. Nell’epoca del virus appare evidente che tutto ciò che è legale, può essere controllato, e quindi è compatibile con la salute collettiva. Proprio per questo dobbiamo cancellare i canali e costruire o rafforzare i canali legali. Rafforzare innanzitutto i corridoi umanitari. Se ci sono persone che fuggono dalla guerra, quelle persone non li portano in Europa i trafficanti di esseri umani ma le grandi democrazie attraverso i corridoi umanitari. Non è una impresa impossibile. Si era già cominciato a farlo. Questa deve diventare oggi una pratica dell’intera Europa. Bisogna garantire canali legali di ingresso in Italia e in Europa. Una gestione intelligente e aperta dei flussi migratori che consenta ai nostri paesi di potere far fronte al bisogno di lavoro che le nostre società richiedono. Liste nei paesi di partenza gestite dalle reti diplomatiche italiana ed europea. Dobbiamo cambiare la Bossi-Fini. Se non lo facciamo adesso, quando? Il Mediterraneo, insieme con il Pacifico, è il terreno di confine tra democrazie e regimi autoritari o non compiutamente democratici. Quello che sta avvenendo nel Mediterraneo è una competizione-cooperazione tra Russia e Turchia, tra due visioni imperiali che ritornano: l’imperialismo russo e quello ottomano. Come possiamo, noi occidentali, dormire sonni tranquilli quando vediamo squadernarsi sotto i nostri occhi delle cose che in altri momenti ci avrebbero turbato…

A cosa si riferisce in particolare?
Penso per esempio alla “pax siriana”. All’inizio Russia e Turchia erano schierate su fronti contrapposti. Poi però hanno trovato un accordo. Quella “pax” ha comportato tuttavia un sacrificio: quello del popolo curdo. Abbiamo chiamato i curdi a combattere contro lo Stato islamico, e i curdi hanno combattuto. Eppoi li abbiamo lasciati da soli. E poi c’è il Nagorno-Karabakh. L’Armenia cristiana. Anche lì, una competizione su due fronti contrapposti, ma poi a un certo punto si arriva ad una “composizione”. Ed essa colpisce il sentimento dell’Armenia.

E poi c’è la Libia
L’ eventualità di una “pax siriana” sulla Libia, con una divisione in zone d’influenza tra Russia e Turchia, sarebbe uno scacco drammatico per l’intera Europa e non solo per l’Italia. Questo è il punto cruciale. Nei prossimi vent’anni il futuro dell’Europa si giocherà in Africa, a partire dall’Africa settentrionale. Un’Europa che guarda soltanto ad Est è un’Europa destinata alla sconfitta. La partita vera si gioca nel Mediterraneo. È l’Est che è scivolato drammaticamente nel “Mare nostrum”. L’Europa non può rimanere spettatrice. È evidente che con la vittoria di Biden cambieranno i rapporti tra Stati Uniti ed Europa. Ma una nuova dimensione euroatlantica non può prescindere dal Mediterraneo. Questo compito spetta all’Europa. Come non comprendere che dopo la “Primavera araba” oggi c’è un freddissimo “Inverno arabo”? Accanto alla Libia c’è la Tunisia, l’unica democrazia nata dalla rivoluzione araba. Noi abbiamo squadernati sotto i nostri occhi i pericoli che quella democrazia corre, stretta in una drammatica crisi economica. Il tema non è soltanto il governo dei flussi migratori. C’è qualcosa di ben più ampio ed epocale che riguarda gli assetti democratici del pianeta. Se dovesse collassare la Tunisia, il rischio è di un gigantesco effetto domino. Basta guardare la linea di costa dal Mediterraneo orientale al Mediterraneo centrale: Siria, Libano, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria. Tutti paesi che per varie ragioni hanno sfide drammatiche che possono travolgerli. L’Europa deve misurarsi con tutto questo, mettendo in campo un grande piano economico. La Russia e la Turchia possono muoversi con una spregiudicatezza militare che l’Europa non può e non deve avere. Sono dei giganti con cui può misurarsi, è una questione di “taglia”, soltanto l’Europa. Consapevole che quei giganti hanno i piedi d’argilla. Cioè la fragilità economica di quei paesi. L’Europa deve mettere in campo tutta la sua forza economico nel rapporto con l’Africa settentrionale. Io aggiungo anche la sua forza civile. Sapendo che nessuno da solo ce la può fare. Né la Francia, né la Germania, né l’Italia. Se l’Europa si divide su questo, perde.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.