Insignita quest’anno del premio Nobel per la letteratura, Han Kang si conferma una fantastica scrittrice anche con questo “Non dico addio” del 2021, che esce adesso per Adelphi (traduzione di Lia Iovenitti). Dopo il Nobel molti lettori italiani stanno apprezzando per la prima volta la scrittrice sudcoreana, anche se “La vegetariana” e poi “L’ora di greco” erano già abbastanza noti, e ora hanno a disposizione un’altra bellissima opera, difficile, dura, poetica.

‘Non dico addio’, il gelo coreano di Han Kang

Han Kang è una di quelle scrittrici che chiedono al lettore di abbandonarsi completamente al fluire delle sue immagini e di adattarsi alla continua frammentarietà temporale, apprezzandone la solidità di sensazioni, di umori, di passione. Il rapporto tra “dentro” e “fuori” ci pare una chiave essenziale della sua letteratura: il gelo esterno, la neve, la pioggia, la bufera si fondono con un dolore interiore – per così dire – anch’esso freddo come una lama d’acciaio. La protagonista della vicenda si chiama Gyeong-ha: è una donna sola, come chiusa in un suo blocco ghiacciato di memoria, che va in soccorso di un’amica difficile a definirsi, In-seon, l'”altra parte” di Gyeong-ha, lavora con le immagini, documenta con la cinepresa ma lavora anche con il legno. E con la sega si è fatta molto male ed è in ospedale a Seoul, ma lei vive nella grande isola a sud (Jeju) e chiede all’amica di andare lì per salvare due pappagallini che altrimenti moriranno. La donna vola sull’isola, ma una tempesta di neve – il viaggio avviene in pieno inverno – la costringe a trovare riparo proprio presso l’abitazione di In-seon.

Sono pagine di una forza estrema: «Mi accorgo che si è fatto ancora più buio e il vento che si infila nell’abitacolo è sempre più impetuoso. La bufera è ricominciata. Il bosco geme e sussulta. La neve si rovescia dagli alberi levandosi nell’aria. Appoggiando contro il vetro la fronte che sta per esplodere, ripenso alla tormenta sulla costa. Alle nuvole che si disperdevano all’orizzonte e ai fiocchi di neve che volavano bassi come decine di migliaia di uccelli. Al mare plumbeo che si avventava sull’isola come per inghiottirla, con onde altissime dalle creste spumose».

Qui la protagonista, tra vecchi documenti e documentari, scoprirà gradualmente i contorni di uno dei più atroci massacri che la Corea abbia mai conosciuto: 30mila civili uccisi (le cifre oscillano in realtà tra le 14 e le 100mila vittime a seconda delle fonti) e molti altri imprigionati e torturati. Tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949, la Corea – allora paese poverissimo – fu teatro di una carneficina tanto sanguinosa quanto dimenticata. «I soldati prendevano i corpi insanguinati delle persone che giacevano sulla sabbia e li buttavano in mare. All’inizio quelli che galleggiavano sull’acqua mi sono parsi dei vestiti, invece erano cadaveri. Il giorno dopo, sul presto, col bambino legato sulla schiena, sono andata alla spiaggia di nascosto da mio marito. Ho cercato dappertutto, sicura che le onde avessero riportato a riva il corpo di qualche neonato, ma non ho trovato niente. Di tutte quelle persone non rimaneva niente, neppure un vestito, una scarpa! Nella notte la marea aveva ripulito il luogo del massacro fino all’ultima goccia di sangue. Per questo, mi sono detta, avevano deciso di ammazzarli proprio lì sulla spiaggia».

“Non dico addio” è «una candela accesa negli abissi dell’anima umana», anche perché la scrittrice torna ad aprire gli archivi della storia, a scavare nel dolore dimenticato del suo paese, a dissotterrare qualcosa di cui nessuno parla volentieri. Ecco dunque che con maestria Han Kang a un certo punto ci conduce nell’inferno che affiora dalla memoria, con tutta la potenza delle descrizioni del fuori e del dentro in una simmetria dolorosamente “fisica” che è davvero impressionante. Una potenza, quella di Han Kang, che procede a strappi, con momenti poetici che sono propri di una letteratura – ripetiamo – non facile, in cui bisogna entrare piano piano, come adagiandosi sulla neve di Jeju, mentre le candele si sciolgono formando come delle «perle di cera» che colano. Una delle mille immagini di questa grande scrittrice.